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“Quando parlo di rivoluzione intendo trasformazione, ovvero trasformazione della vita di tutti. (…) Tutta la struttura economica e sociale deve cambiare  e bisogna inventarne una nuova (…) L’idea è che ognuno è un artista, cioè artefice. (…) Tutto ciò che ho fatto è in rapporto alla catastrofe, sempre presente e dominante nella vita delle gente del Sud, nelle condizioni politiche e sociali (…). Il Mezzogiorno può essere il luogo ideale, il laboratorio” di futuro.”La rivoluzione siamo noi”.

Si celebrano i cento anni di una delle personalità più eccezionali, uno dei più importanti artisti del XX secolo. Joseph Beuys. Lo sciamano. Il profeta. Venerato in vita per il suo carisma, come  “un mito (…). anticipò tutti i temi oggi di stringente attualità: il ruolo politico dell’artista, l’impegno ambientalista, il rapporto tra arte e scienza”. Oggi è quasi dimenticato. Come indica Fanelli nel numero del Giornale dell’Arte di marzo-da leggere-, la fiera Artissima del 2019 aveva chiesto agli artisti di indicare il proprio albero genealogico. Beuys non è stato il padre di nessuno. Scomodo.  Ingombrante. Beuys dichiarò che “l’arte è l’unica possibilità di riformare le società occidentali nelle loro forme di esistenza materiale e spirituale”. “Mise in discussione il pensiero unico, i concetti stessi di arte, economia, scienza e politica”,  già negli anni ’60, da  ecologista e animalista, cofondatore del Partito dei Verdi e dell’Università Libera. L’arte per la scultura sociale. Artivista. Attratto dal “Mythos Italien”,  con il suo gallerista Lucio Amelio, portò a Napoli, che lo amò ricambiata, la sua utopia. E a Napoli, un cultore beuysiano, Peppe Morra con la sua Fondazione la richiama con un intenso programma che va ben oltre la celebrazione.

 

La cifra del percorso di Letture Lente, nato poco prima di questi difficili e sfidanti mesi della pandemia, è proprio la centralità della cultura come rotta di senso e assieme timone. La trasformazione sociale ed economica, anche frutto della trasformazione digitale, accelerata dall’emergenza sanitaria, pone infatti l’urgenza di accendere domande sul futuro che vogliamo costruire e sugli strumenti più adatti per farlo. Dopo anni di frammentazione e di pensieri deboli, appare non più rimandabile l’identificazione di “percorsi forti” (“antifragili”) sui quali convergere dibattito e misure di intervento, con un metodo che coniughi pensiero riflessivo, che spinga le barriere del possibile, con il lavoro e la pratica territoriale, a sperimentare quei pensieri in prassi che, di nuovo, stimolino pensieri.

Come mission di Letture Lente ci siamo date proprio l’indagare quei percorsi, aprendo domande, sollecitando risposte, e così porre i mattoni di una re-visione del mondo, per la costruzione “culturale” di una nuova casa comune.

Uno di questi percorsi è senz’altro quello della coesione sociale. Come ci ricorda Pierluigi Sacco, nel suo contributo che illumina il numero di marzo di Letture Lente, la cultura come spazio abilitante per la comunità è un orizzonte recente e che ribalta una concezione elitista degli spazi culturali, tradizionalmente templi del sapere legati al capitale di istruzione e quindi fortemente esclusivi.  E’ un cambio totale di prospettiva, che prende le distanze dalla cultura come strumento di potere per il potere (esemplificabile nella costruzione della “Via dell’Impero a Roma, nel 1932) elevandola a strumento di costruzione di competenze (empowerment) per le comunità, ricomponendo quindi una frattura antica tra il patrimonio e chi lo abita (fisicamente e concettualmente) e, quindi, ha diritto a trarne valore.

Questo ribaltamento, come ci ricorda Sacco, ha un forte impatto sociale e politico, perché ha il merito, tra le altre cose, di assegnare alla cultura un ruolo di “leva” di mobilità sociale in un paese dominato, in particolare negli ultimi sessanta anni, dalla convinzione opposta, laddove “si può diventare ricchi o potenti in un istante, ma non si può diventare colti in un istante, e non a caso, anche nel nostro Paese, l’associazione tra ricchezza e potere da un lato e ignoranza dall’altro ha mobilitato un consenso sociale fortissimo in vari momenti della nostra storia recente”.

In questo quadro l’inclusione diviene il “senso stesso dell’esperienza estetica” e le istituzioni culturali assumono una funzione rinnovata, di acceleratori, luoghi in cui “coltivare e espandere la propria capacità di espressione, la propria identità culturale” e, al contempo, aggiungeremmo noi, dove negoziare quella identità con altre comunità, quindi promuovere contaminazione e diversità culturale.

La survey lanciata dal progetto “Art&Well-being” mostra in modo evidente – come ci segnala  nella sua recensione Annalisa Cicerchia – il contributo delle arti e della cultura al benessere individuale, soprattutto come strumento di consapevolezza e connessione sociale.

Relazione, wellbeing, coesione, welfare divengono quindi cifre importanti della multidimensionalità di azione della cultura. Strumento di cura, di riduzione delle diseguaglianze, di abilitazione, di tessitura delle comunità. Questo risulta evidente non solo nei piccoli spazi dove quotidianamente si costruiscono relazioni ma anche negli spazi canonici della cultura come musei e siti archeologici.

 

Interessante carotaggio quello del bando “Rincontriamoci” della Compagnia di San Paolo (con Che Fare), esaminato nel contributo di Sandra Aloia e Matteo Brambilla, che in 8 giorni attrae 500 domande di “centri di protagonismo giovanile, bocciofile, società di mutuo soccorso, centri di educazione ambientale, spazi di musica dal vivo, co-working, circoli, parchi e giardini gestiti in forma attiva e condivisi, spazi polifunzionali, locali, bar e ristoranti sociali, case del quartiere, rifugi alpini, dopolavoro, cinema/teatri/musei/biblioteche comunitarie”. La consapevolezza è che saranno proprio questi spazi i presidi territoriali per la ricostruzione post-pandemia, “serviranno a ricucire i rapporti sfibrati tra individui provati dall’isolamento”.

La consapevolezza è che la biblioteca, come il Museo, esiste nel suo entrare in relazione. Ce lo indica Chiara Faggiolani nel suo contributo sul “Convegno delle Stelline” in cui  viene sviluppato il tema delle biblioteche come infrastrutture sociali. E ne conviene  Pietro Petraroia nella recensione al volume di Vito Lattanzi “Musei e antropologia”: “Il museo si costituisce dunque come luogo-macchina, il cui motore e le cui energie di funzionamento si attivano nella relazione dialogica incessante che avviene nella contemporaneità”; il “modello espositivo che sembrava legittimarsi proprio nella presa di distanza dal contesto originario attraverso valutazioni selettive e, sostanzialmente, di astrazione “scientifica” dal luogo” va definitivamente in crisi, arrivando a chiedersi se “ha tuttora senso parlare di pubblico come entità autonoma, distinta dalla collezione e dai suoi valori” e se quindi, paradossalmente, ha ancora senso parlare di “pubblico”.

La fertilità di idee e di azione di questo ribaltamento – o esplosione! – della vocazione del museo emerge in modo evidente anche dall’appassionato racconto che Anna Chiara Cimoli fa del volume The Future of the Museum. 28 Dialogues nel quale sono raccolte le interviste condotte da András Szántó a 28 musei internazionali, un viaggio “nel potere della cultura e dell’invenzione di nuovi modi per esprimerlo”. La forza del cambiamento è questa continua tensione tra la grande scala e la piccola scala (tra globale e locale, tra comunità e persona): lo vediamo con chiarezza in una delle tante buone pratiche (il Garage di Mosca) raccontate dal volume. “L’istituzione diventa così agente e interlocutore”, nelle parole di Belov.

Ma questa accelerazione di senso la vediamo anche in luoghi non tradizionali come, ad esempio, gli ospedali. Ce lo mostra Elena Franco illustrando il progetto di collaborazione dell’Azienda Ospedaliera SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo di Alessandria – che “forte di una tradizione che risale al XVI secolo, conserva un ricco patrimonio storico” – con la comunità di Wikimedia. Iniziativa che “vuole contribuire al miglioramento delle voci di Wikipedia, aprendosi alla filosofia open science, open access e open content, e assicurando al contempo la diffusione di informazioni mediche verificate e autorevoli, in modo particolare in questo periodo dominato dall’infodemia. L’Azienda ospedaliera, in cambio, può beneficiare della capillarità e della larga diffusione delle risorse culturali aperte garantite dall’enciclopedia, valorizzando così anche la produzione scientifica aziendale insieme al proprio patrimonio”.

Nella stessa logica “particolarmente interessanti sono oggi quei luoghi, da nord a sud, che stanno sperimentando ripartenze creative trasformandosi in hub di rigenerazione culturale, urbana e sociale, creando così nuovi attrattori e motivazioni di visita, oltre il turismo più tradizionale”, come ci ricorda Emma Taveri nel suo contributo.

Un ottimo punto di vista della potenzialità  della missione culturale delle grandi istituzioni pubbliche ce lo offre la recensione di Filippo Tantillo del volume dell’Ufficio Studi Rai “Coesione Sociale. La sfida del servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale”. La Rai, al pari delle altre imprese pubbliche, è uno “strumento formidabile per il perseguimento degli interessi generali, in una fase che richiede un intervento deciso per contrastare le crescenti disuguaglianze economiche, territoriali e sociali, per gestire le sfide del cambiamento climatico ed affrontare la difficile eredità della pandemia”. E il suo impegno appare specificatamente strategico per affrontare “le asimmetrie di accesso alle informazioni, lo smarrimento del senso di comunità, il senso di marginalità, la solitudine e l’insicurezza e la paura che sembrano avvolgere interi settori della società”. Guardare alla coesione sociale significa quindi rinnovare la missione del servizio pubblico radiotelevisivo, nel “promuovere il protagonismo dei cittadini, […] renderli più informati e consapevoli di fronte ai mutamenti in atto” e nel “contribuire a costruire quello che è forse il gradiente essenziale della coesione sociale, la fiducia”.

Una comunicazione con una vocazione “pubblica” assume quindi un ruolo molto rilevante nel promuovere sistema di relazioni e comunità. Al contempo è fondamentale stimolare “l’accesso popolare alle nuove tecnologie al di fuori delle grandi industrie (che fino ad ora sono state gli attori più interessati alla loro implementazione)” e quindi “favorire modalità sandbox di sperimentazione, sostegni all'imprenditorialità, facilitazioni in materia di accesso al credito e ai mercati che potrebbero stimolare una massiccia ondata di innovazione sociale”.

“L’importanza del capitale relazionale è uno dei valori centrali del paradigma mediterraneo generativo di innovazione sociale” descritto nel volume di Alex Giordano “Societing 4.0” come ci racconta Giancarlo Sciascia nella sua recensione. “Il valore della relazione e dell’intelligenza connettiva, recuperato nel web in virtù dei meccanismi comunitari innescati dalla collaborazione e dalla condivisione messi a frutto nel sistema di innovazione, è inteso come un fattore capace di produrre soluzioni cooperative, avvantaggiandosi dell’utilizzo e della sperimentazione di tecnologie aperte, quindi non proprietarie, che producano soluzioni utili a reti di imprese e/o a comunità”.

Il cambio di prospettiva della missione della cultura investe naturalmente anche tutto il sistema dei finanziamenti. Perché la missione coesiva che il patrimonio assume con chiarezza e determinazione non solo giustifica e “richiede” l’investimento pubblico e privato filantropico ma lo riempie di senso e impone strumenti trasparenti di monitoraggio e valutazione legati ad obiettivi chiaramente identificati di medio e lungo termine. In proposito vale la pena di ricordare che la valutazione, alla luce del ragionamento esposto sopra, non può limitarsi a indicatori prettamente numerici (tanto più se relativi agli accessi al patrimonio), spesso non solo insufficienti ma del tutto fuorvianti rispetto all’impatto sociale della cultura. Lo esemplifica bene Tantillo quando afferma che “in ambito radiotelevisivo […] guardare solo alle cifre di ascolto come metro di giudizio esclusivo per valutare le scelte produce una omologazione dei contenuti e favorisce i meccanismi che sono secondo molti all’origine della crescita delle diseguaglianze”. E lo puntualizzano Silvia Angeli e Marco Ratti quando ribadiscono la difficoltà di identificare “indicatori di impatto socioculturale semplici, non manipolabili e affidabili” al contempo però rilevanti per “disegnare strumenti finanziari outcomes based per la cultura”. Su questo tema un osservatorio a cui far riferimento è il Centre for Cultural Value – come ci indica la conversazione (versioni in italiano e inglese) tra Franco Bianchini e Ben Walmsley (Università di Leeds), Direttore del centro – che studia le esperienze dei pubblici della cultura e indaga metodologie innovative per valutare le attività culturali. Segnaliamo, tra i moltissimi progetti in piedi, un programma di finanziamenti “Collaborate”, il cui obiettivo è “sviluppare l'apprendimento riflessivo nel settore culturale. […], sostenere progetti di ricerca-azione basati su una valutazione rigorosa, tramite la costruzione di nuove partnership tra università e organizzazioni culturali”.

Naturalmente la disponibilità delle istituzioni e degli operatori e operatrici culturali ad aprirsi alla valutazione, e a questo fine acquisire strumenti che li rendano più trasparenti negli obiettivi e risultati, non può non sposarsi con un radicale processo di revisione del lavoro culturale. L’urgenza di questo passo emerge con chiarezza dal progetto di Impasse dedicato all’approfondimento e al pubblico confronto sulle condizioni materiali del lavoro culturale R-set / Tools for cultural workers, ben raccontato nel contributo di Nicoletta Daldanise e Irene Pittatore. “Artisti, artiste, curatori, curatrici, operatori e operatrici culturali dai regimi fiscali più diversi vedono le loro già precarie condizioni professionali sull’orlo del collasso: sono collaboratori occasionali, codici ATECO Altre creazioni artistiche e letterarie, lavoratori ombra che progettano e realizzano mostre, pubblicazioni, festival, performance, concerti, convegni, scrivono d’arte, a volte associati in organizzazioni culturali indipendenti, costellazioni fragili in diaspora. Un universo puntiforme di intelligenze, generatore di forme e di forze, di soggetti finora poco avvezzi all’aggregazione sindacale, prestatori di lavoro intellettuale quasi mai riconosciuto, soprattutto in Italia”.

Una doppia sfida aperta per disegnare politiche sempre più efficaci ed organizzazioni culturali sempre più trasparenti e generative di valore.

In cima a questo percorso di lavoro sulla coesione sociale, le discriminazioni di genere. Dopo aver chiuso la prima fase di riflessione sulle principali caratteristiche di questa frattura e su come ricomporla, iniziato lo scorso agosto, da questo numero Letture Lente, con i contributi di Alessandra Fissore e Maurizio Carta, apre la fase due della call nella quale le 10 aree di analisi individuate vengono ulteriormente approfondite e declinate in interventi e misure. Fissore ci ricorda la necessità di proteggere e sostenere le donne anziane, categoria in grande sofferenza all’interno di una generazione, anziane ed anziani, duramente colpita dalla pandemia ma soprattutto stritolata dai processi di disgregazione dei nuclei familiari tradizionali: questa categoria sociale potrebbe trarre forte beneficio da una rafforzata missione culturale che la ponga nuovamente all’interno delle comunità, restituendole una rete di legami in cui consolidare memoria, guida e forza generatrice per le generazioni più giovani. E Carta ribadisce il senso del progetto di Letture Lente quando ricorda che “una nuova generazione di donne non si limita più a denunciare, ma si sta impegnando per interpretare e guidare la società, generando democrazia, attivismo, giustizia sociale, economia e leadership femminile, ed assumendo sempre maggiori responsabilità apicali. […] A Barcellona, per esempio, la Sindaca Ada Colau, con urbanisti e attivisti, sta trasformando le piazze in luoghi di aggregazione ricchi di discussioni politiche, e, con ancora maggiore intensità nell’epoca della Covid-19, sta aiutando le associazioni ad occuparsi dei quartieri, sta facilitando la nascita di proposte urbanistiche e socio-economiche creative e collaborative che recuperino la dimensione umana a partire dal protagonismo delle donne. Spazi civici plurali immaginati da un pensiero diverso, intimamente generativo, che stanno stimolando molte giovani donne a mettere in gioco le loro competenze e vocazioni, ad uscire dalle mura domestiche, spesso pericolose, per agire nello spazio pubblico della comunità”.

Questo è per noi esattamente il senso di come il pensiero generativo,  delle donne, ma non solo  di ognuno di noi,  può indirizzare il nostro futuro, guardando alla cultura come strumento e visione di trasformazione.

Buon 8 Marzo a tutte.

 

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