
Nel riflettere con l’approccio ‘lento’ di uno sguardo lungo – quello di un processo di costruzione e realizzazione del percorso di Matera Capitale Europea della Cultura durato quasi 10 anni – ho avuto molte incertezze, molti dubbi. È difficile in poche righe parlare di legacy, quando ancora sentiamo addosso le emozioni e le fatiche che questo anno ci ha offerto. Come si affronta un’eredità, che si porta addosso pensieri e dinamiche complesse, in una situazione mista di attese che andavano realizzate (secondo un programma, quello del dossier, concepito nel 2014) e di nuove sfide, sociali, politiche, economiche, culturali insomma, alle quali questo inizio di III millennio ci sta sottoponendo? È forse troppo presto per fare un bilancio, ma urge capire come predisporre i passi immediati, perché il tutto non evapori velocemente nel defaticamento del post evento.
Ora infatti, siamo nella terra di mezzo: quella che ogni ‘grande’ evento si porta appresso – il complesso della ‘vedovanza’, come la chiamerebbe Ilda Curti, la ‘tristezza’ della fine di un grande momento – che però stride con la natura stessa del processo messo in campo, visionario non per il 2019, ma per il tempo successivo.
Cosa significa oggi essere Capitale Europea della Cultura
L’avventura delle Capitali Europee della Cultura inizia nel 1985, grazie a Melina Mercouri: in quei tempi eravamo ancora immersi in un concetto di cultura diverso, di ‘riconoscimento’ di un valore conservativo di una dimensione europea, che ancora giocava molto sull’affermazione del proprio status identitario. Non a caso, le prime Capitali Europee furono Atene e Firenze, la classicità e il rinascimento, come termini fondativi. Nel tempo l’approccio è cambiato, in particolare dopo il 2011 (con l’uscita del report di Robert Palmer), dove lentamente il focus si è spostato dai ‘monumenti’ europei, alle comunità, che intorno a quei monumenti vivevano. Matera 2019 è figlia di quella svolta, e proprio sul senso di apertura, di ‘openness’, di coinvolgimento, di stravolgimento del concetto di pubblico che guardava ai monumenti è stato costruito il dossier di candidatura.
Ma dobbiamo ora prendere atto di un ulteriore passo in avanti: connettere le politiche europee. Con l’avvento dal 2014 delle nuove fasi di progettazione europea (Creative Europe, Horizon, Erasmusplus, etc.), strumenti cruciali nel pensare ‘collettivamente’ l’Europa, nel costruire strategie future, le ECoC (Capitali Europee della Cultura), dovrebbero sempre più essere al servizio di queste dinamiche e divenire veri e propri laboratori connessi fra loro per sperimentare le nuove visioni: dovremmo rimuoverle dal loro essere ‘capitali’ (nel senso di ‘caput mundi’) affinché diventino ‘capitali umane’, all’interno di una strategia più ampia.
E così dovrebbe di riflesso essere anche per le Capitali italiane della cultura (nate peraltro sull’onda del successo di Matera 2019, grazie al ministro Franceschini), nutrendo la sana concorrenza con un piano di sviluppo reale di strategie culturali a livello del paese.
Non possiamo più permetterci gare solitarie, a livello nazionale ed europeo: la posta in gioco – la profonda crisi del pensiero occidentale, la tenuta stessa dei processi democratici, l’urgenza di riconoscere la crisi del modello dello stato moderno – è alta, e solo uno sforzo di pratica collettiva può tentare di trasformare lo stato delle cose.
Dobbiamo ripensarci culturalmente, dobbiamo rivedere i nostri DNA e capire come adattarli alle sfide in corso. Ed anche capire se la ‘vetrina’ di un anno – quello delle capitali della cultura – è ancora un modello idoneo, se lasciato solo allo sforzo locale di un luogo.
Il mentre
Matera è arrivata al 2019 soffrendo di questo ‘isolamento’: il cambio di amministrazione nel 2015, lo stallo del processo nei due anni successivi, il riavvio lento fra fine 2017 e 2018, non sono solo il frutto di ‘naturali’ beghe locali. Avvenuto il riconoscimento della forte carica che il progetto Matera 2019 si portava appresso nell’essere potenzialmente ‘dirompente’ nel porre la cultura al centro di un ripensamento di comunità, la ‘politica’ si è vendicata nel riaffermare le proprie logiche, trattenendo la cultura nelle stanze stanche del suo museo novecentesco. Le provette sempre più impolverate del ‘laboratorio’ che Matera 2019 doveva divenire – ove gli eventi promessi per il 2019 non fossero altro che esiti finali di percorso – sono state rilucidate e rimesse in azione per le varie alchimie solo in pieno 2018, nella inevitabile crescente ansia di prestazione, di raggiungimento di risultati.
Senza queste premesse, non si può capire il 2019 e la sua possibile ‘legacy’.
I tempi di un esperimento di trasformazione culturale sono lunghi, lunghissimi, se si vogliono radicalmente cambiare – non correggere – i linguaggi, le modalità, le forme di un pensiero individuale e collettivo.
Obiettivi principali erano quelli di capovolgere il concetto di ‘audience’ – portando la comunità ad essere parte attiva di un processo di ripensamento di sé stessa, di lavorare per questo ad una crescita della scena creativa locale – mettendoli in connessione con il più ampio laboratorio europeo, e di scardinare la città (e il territorio) entro cui la vecchia cultura agiva – lavorando senza teatri, senza spazi classici, invadendo centri e periferie con nuovi contenuti.
Il tutto, non dimentichiamolo, in una delle terre più dimenticate del Sud: ci avevano provato Olivetti, Rossi Doria, Quaroni, De Martino, Mazzarone, e molti altre/i, cogliendo forse in Matera – nel suo essere agli antipodi dei loro mondi – l’essere spazio-laboratorio ideale per confrontarsi con un nuovo modello di umanità/comunità, da secoli costretta sempre al confronto serrato con la natura aspra non solo della Murgia, ma con la sua stessa condizione di ‘lontananza’.
A che punto siamo arrivati?
Non voglio qui enunciare i primi dati ufficiali sul successo di Matera 2019 (che troverete nel file ufficiale degli indirizzi di legacy), ma piuttosto concentrarmi sull’essenza del percorso laboratoriale e sui suoi possibili esiti.
Un elemento intanto esemplificativo da cui partire: sui 1000 e più momenti/eventi messi in campo (per i quali si intende dai semplici laboratori organizzati con i cittadini con Open Design School ai grandi spettacoli a Cava del Sole), il teatro a mio parere ha giocato un ruolo cruciale, nelle dinamiche di coinvolgimento della cittadinanza, proprio per la capacità che questa ‘arte’ ha di sperimentare allo stesso tempo il connubio fra presenza fisica e costruzione di linguaggi all’interno di nuovo spazi da rinominare. Qui il teatro diventa palestra per confrontarsi con una nuova dimensione territoriale.
Otto produzioni su nove hanno costruito su questo la loro forza: da ‘Humana Vergogna’ di Rete Teatro 41 in carcere, al ‘Purgatorio’ del Teatro delle Albe nel vecchio monastero delle Monacelle, alle comunità ‘attraversate’ da ‘La nave degli incanti’ di Gommalacca Teatro, al prologo sui ‘Sette Peccati Capitalisti’ di Giorgio Barberio Corsetti lungo le strade dei Sassi vissute anche dal ‘Nuovo Vangelo’ di Milo Rau, allo sfida lanciata dallo IAC con ‘Matera Città Aperta’ nell’occupare la piazza principale di Matera, all’opera teatrale di ‘Silent City’ della compagnia de L’Albero in un grande magazzino della periferia, agli ‘Uccelli. Esercizi di miracolo’ del progetto Clessidra del Teatro delle Forche negli spazi del Casale. Solo Roberto Latini con il suo ‘Mangiafoco’ aveva scelto la prospettiva classica, nel consueto schema della ‘quarta parete’. Le altre compagnie, tutte in produzione originale, hanno sfidato i luoghi, dato parola ai cittadini nel viverli, si sono allontanati dalle consuetudini novecentesche, per costruire nuovi approcci.
La prima risposta della cittadinanza
Il risultato? Qui, la loro voce. Normali cittadini che non volevano diventare ‘attori’, ma che attraverso il processo di presenza in questi lavori, hanno fatto esperienza di comunità, si sono riconosciuti come collettività: teatro quindi come ‘palestra’ di cittadinanza.
E questo è emerso anche nel questionario finale che la Fondazione Matera 2019 ha commissionato per misurare le prime reazioni all’anno da Capitale, dal quale sono venute fuori risposte molto interessanti. Al di là di un generale alto apprezzamento dell’azione svolta, rispetto ad una comunità non abituata a tanta ‘pressione’ culturale, una richiesta sorprendente (per chi è sempre abituato a chiedere infrastrutture) risulta dalla domanda ‘Che cosa vorrebbe che continuasse dopo il 2019?’: la risposta più di successo (62%) è quella che chiedeva che Matera e la Basilicata restino un luogo dove si produce cultura, secondo quel modello di cultura a cui avevano preso parte.
Questo ci apre a una dimensione nuova, su cui dobbiamo, non solo a Matera, continuare a lavorare: emerge, netta, la forza di un’idea di cultura che costruisce fiducia, senso di appartenenza – non identitaria, ma di ricostruzione di senso di comunità – che rafforza l’idea del lavorare insieme. Una nuova idea, insomma, di welfare culturale, che serva, attraverso l’esercizio culturale, proprio a ripensare il concetto stesso di welfare (lo stare bene).
Un esercizio che la ‘Politica’ non sembra più in grado di costruire. Ma che la cultura, invece, ha dimostrato di saper sperimentare, dando forse nuovo senso alla politica stessa. Qui un appunto per tutte/i noi che lavoriamo nel settore ‘culturale’: forse questa è la vera grande sfida, nell’uscire dalle nicchie del nostro fare – dagli spazi, gesti, vocaboli, consueti – per andare a contaminare l’esercizio di cittadinanza. Che vuol dire fare processi di co-costruzione, di partecipazione, se poi li manteniamo nella pratica culturale e non la trasferiamo in quella politica? Siamo in grado di generare una Cultura che sappia essere Politica?
Una nuova strada
In nome di questo nuovo welfare culturale, di un benessere culturale, mi ha colpito di recente il nuovo piano per il Sud 2030 lanciato dal ministro Provenzano: al di là di approcci nuovi – sulla scuola, ad esempio, su cui tanto si dovrebbe parlare, ancorata a vecchie visioni teleologiche del lavoro, sulle aree interne, ecc. – il documento parla di cultura, la cui parola (nelle sue varie declinazioni) compare ben 50 volte nel testo. Cultura nelle scuole, per l’appunto, o nell’approccio alle aree interne – fra l’altro citando Matera 2019 come modello di ‘strada chiara’ da seguire – o genericamente come elemento che nutra il cambiamento.
Ed è su questa strada che ora bisogna sfidare la ‘Politica’, o meglio, sfidare sé stessi: a ridosso di nuove elezioni amministrative comunali, Matera 2019 ha generato una volontà di cambiamento, di adesione a nuovi modelli di gestione della città (e del territorio)?
Indipendentemente comunque dal momento elettorale, che peraltro condiziona anche il processo di legacy di Matera 2019, servono nuovi meccanismi, che sostituiscano quelli messi in campo per affrontare il 2019. Ora non rincorriamo più un evento, ma abbiamo bisogno di un congegno nuovo che sappia mettere insieme le sollecitazioni generate e lavori per un nuovo welfare culturale.
La Fondazione pensata per rispondere a Bruxelles – che richiedeva formalmente l’adesione delle istituzioni più che dei processi – deve saper osare per andare oltre sé stessa, ed essere in linea con quanto espresso dalla cittadinanza: deve sapersi ri-pensare. Ri-immaginandosi ad esempio come fondazione di comunità, secondo modelli nuovi, dando linfa alle dinamiche accese, ai corti circuiti generati, durante questo anno di sperimentazione; mettendo insieme ad esempio il mondo delle imprese sociali con quello della scena creativa che tanto ha fatto (ma anche sofferto nello sforzo epico dei meccanismi da fondazione pubblica), coinvolgendo il gran numero di volontari che si sono dati alla città. Ponendo al centro un luogo costante di riflessione, di ricerca, come potrebbe essere la nuova Open Design School – progetto pilastro di Matera 2019 -, al servizio di un ‘design’ che si confronti con nuove forme dell’abitare, del costruire insieme, del sentirsi comunità.
Tanto abbiamo ancora da fare, ma tanto abbiamo acceso: in questo commettendo anche molti errori, tipici della sperimentazione, ma insistendo sulla cultura come elemento da cui ripartire per il cambiamento. Per guardarci, ma soprattutto, per ridare senso a quel tratto della polis europea, nostro DNA essenziale, che abbiamo dimenticato. Riprendiamo quindi la discussione, portandoci appresso le gioie (e le fatiche ) dell’anno passato, per guardare al prossimo decennio consapevoli di nuovi passi dai quali ripartire.
Abstract
Talking about the legacy of Matera 2019 is not an easy task, few weeks after the end of the ‘event’. But we should begin to understand what the first impact was, being aware of all the dynamics of the process that led us to 2019. The main objectives were to overturn the concept of 'audience', to work for this to grow the scene local creative, and to unhinge the city (and the territory) within which the old culture acted – working without theaters, without classic spaces, invading centers and suburbs with new contents. One of the fundamental results was precisely that of a wider involvement of the community, in particular through the work done with the theater companies. Now we need to think about the consequences and the forms to be given to continue on this path. A community foundation could be the most attractive outcome, bringing together the various social partners involved.
Emmanuele Curti, archeologo e manager culturale, dopo la formazione a Perugia, è approdato a Londra, dove ha insegnato agli University and Birkbeck College, dal 1992 al 2003, e successivamente all’Università della Basilicata fino al 2015. Si è occupato per anni di processi di acculturazione nell’antichità fra mondo greco, romano ed indigeno, ed ha portato avanti progetti di ricerca a Pompei e in Giordania. Negli ultimi anni la sua attenzione si è concentrata sui cambiamenti dei paradigmi delle discipline umanistiche legate ai beni culturali e al necessario sviluppo di un nuovo approccio alla dimensione socio/economica della cultura. E’ consulente ora di Matera 2019 e Materahub e collabora ad una serie di progetti sui beni culturali, cultura digitale, aree interne, turismo di comunità, ecc.