
IL PENSIERO DELLE DONNE PER ROMPERE IL PENSIERO UNICO
La ricchezza delle risposte alla call for paper lanciata dall’intervento su Letture Lente dell’agosto 2020 ha mostrato l’entità della forbice dello squilibrio di genere nei settori culturali e creativi ed assieme l’urgenza di individuare misure dirette alla sua riduzione. Una urgenza che era stata il motore di questo progetto, nato dall’obiettivo di trasformare la pandemia generata dal Covid-19 in una opportunità di mettere in discussione modelli di sviluppo non più accettabili. Come si interroga Elisa Manna “accantonate le ideologie, ci si scopre alla ricerca di costellazioni valoriali coerenti che siano in grado di orientare lo sviluppo futuro, possibilmente superando le contraddizioni e i fallimenti del precedente modello”.
Quali sono quindi le sfide da cogliere? Come possiamo ripensare forme ed obiettivi dei settori culturali e creativi? La scommessa che apre il dibattito lanciato da Letture Lente è che le donne possano portare un pensiero nuovo e nuova energia e visione di futuro. Anche grazie ad una “attitudine profetica” come suggerisce Manna “che le porta a pre-occuparsi del futuro: questo significa che cercheranno, laddove le venga riconosciuta competenza e capacità, di metterle a servizio del bene comune”. “Sarà sempre più necessario promuovere e valorizzare modelli organizzativi basati sulla collaborazione, sulla condivisione, sull’esercizio della delega, sulla fiducia, sull’autorevolezza, sull’intelligenza sociale ed emotiva, sull’adattabilità e sulla creatività. Tutte caratteristiche molto femminili” ci ricorda Valeria Ferrero.
“How dare you? è la domanda che Greta Thunberg ha rivolto ai leader delle Nazioni Unite, indignata per il procrastinarsi di decisioni urgenti per la protezione del clima: non è lo stesso interrogativo che dovrebbe porsi, con il medesimo disappunto, ogni donna che nega a sé stessa la liberazione del proprio potenziale? Il coraggio di un’inversione di rotta? Di uno spostamento di fuoco?” si chiede Beatrice Verri. “Le donne, da sempre, portano sulle proprie spalle il peso atavico di scelte non proprie ma, nello stesso tempo, soprattutto in territori più fragili e marginali, sono i loro spostamenti a provocare il mutamento delle geografie umane e culturali”.
Che la stessa presenza delle donne sia in grado, di per sé, di sradicare il sistema ce lo ricorda anche Silvia Garambois, la prima ad occuparsi di cronaca nera a Firenze e a varcare la soglia della Questura, negli anni settanta: “stavano per cambiare molte cose in Polizia, ma intanto cambiava il fatto che in un ambiente solidamente maschile si affacciava una ragazzina. Intanto, giù i piedi dalle scrivanie quando arrivavo, e poi funzionari e colleghi che abbandonavano d’incanto il linguaggio da caserma che fin lì si erano scambiati. La presenza delle donne forzosamente cambiava la cultura”. E ce lo ricorda ancora Monica Cerutti citando Patricia, artista del vetro di Chiusa Pesio: “non è tanto una questione di essere nuovi abitanti, quanto di abitare in modo nuovo, più consapevole”.
Non si può quindi non convenire con Claudia Padovani quando sottolinea che “qualsiasi progettualità per il futuro non possa prescindere da un esplicito e definitivo impegno per l’uguaglianza di genere nei programmi e nelle strategie di ripresa, ripartenza, rinascimento” e questo impegno non può che investire in pieno la mission culturale: “nel promuovere e fare circolare idee alternative e rispettose della diversità, nell’affermare valori di inclusione e solidarietà, nel disegnare programmi centrati su pratiche reali di eguali opportunità”.
Così la cultura viene posta al centro della costruzione di una nuova Weltanschauung, che investe il patrimonio e tutte le filiere e le attività correlate.
IL DECALOGO DI GENERE
In questo senso le risposte alla call hanno mostrato che le aree di intervento sintetizzate nell’articolo di agosto 2020 di Letture Lente sono una buona strada e hanno arricchito quest’ultima di suggestioni e strumenti. Vediamoli nel dettaglio di un nuovo decalogo di genere per i settori culturali e creativi, da leggere in un contesto intersettoriale più ampio come quello offerto dal Manifesto “Il cambiamento che vogliamo, Proposte femministe a 25 anni da Pechino, luglio 2020” e senza dimenticare il prezioso lavoro svolto da EENCA “Gender gaps in the Cultural and Creative Sectors” che ha illuminato la strada delle politiche pubbliche di settore.
1. Osservatorio di genere
I dati sulla parità di genere riguardanti il mercato del lavoro (parità salariale, numero di donne nelle posizioni di vertice, ecc., con una particolare attenzione al precariato che colpisce maggiormente la componente femminile) e l’analisi del contenuto delle narrazioni (veicolo di contenuti stereotipati, privi di voci femminili specie se autorevoli) sono scarsamente rilevati, anche quando riguardano il settore pubblico. La carenza di dati ostacola la piena comprensione del fenomeno e la definizione degli opportuni rimedi, mediante l’attivazione di politiche pubbliche mirate ed efficaci e l’individuazione di indicatori funzionali a monitorarle e valutarle.
È auspicabile, come ribadisce anche Claudia Padovani ricordando le molteplici buone pratiche europee ed internazionali, che in Italia sia dedicato un apposito dipartimento nazionale/Osservatorio (di settore, nei ministeri di riferimento, o unificato a livello centrale) alla rilevazione, studio e disseminazione dei dati sui gap di genere. I dati e la ricerca hanno un ruolo fondamentale anche per incidere sulla consapevolezza sociale. Spesso, infatti, manca proprio la percezione, specie in ambito maschile, delle discriminazioni, soprattutto in ambito lavorativo. La diffusione di dati sulle questioni di genere è quindi fondamentale per una maggiore presa di coscienza delle diseguaglianze.
Inoltre, come ci ricorda Giuliana Giusti “visto che gli indicatori, espressi in termini linguistici, condizionano il tipo di dati raccolti, la trasparenza grammaticale (opposta all’ambiguità interpretativa) è il presupposto di una raccolta di informazioni e pubblicazione di dati che rispecchino in modo corretto la popolazione femminile. Questo è particolarmente importante in un momento in cui gli studi sociali e umanistici si orientano verso i megadati che sono raccolti con algoritmi spesso creati in modo opaco (di cui non si conoscono i dettagli) minando alla radice l’attendibilità delle analisi (de Laat 2018). Se le donne non saranno indicate con i nomi al femminile, gli algoritmi non potranno accorgersi della loro esistenza” (tema che rimanda al punto 10 di questo decalogo).
2. Riduzione dei gap di genere nelle agenzie pubbliche e nei soggetti privati
Come ci ricordano Barbara Berruti e Matteo D’Ambrosio citando Dunia Astrologo nel numero 1 del 2020 di N, il Magazine del Polo del’ 900, interamente dedicato al tema della parità di genere “circa il 44% delle donne che lavorano in Italia, percepisce una retribuzione inferiore alla media nazionale a parità di lavoro, orario e qualifica” e “nelle aziende private solo una donna su quattro ricopre un ruolo manageriale”.
“Il cambio di paradigma nelle fondazioni, così come nelle aziende e in qualunque organizzazione, avverrà solo quando l’integrazione della eguaglianza di genere avverrà anche all’interno, nella governance e nella leadership della propria organizzazione” sottolinea Carola Carazzone. E sarà una svolta di cui tutt* potranno beneficiare: “l’evidenza dei dati finalmente mette in luce le ragioni per farlo. Non più perché è politicamente corretto o bello da far vedere, ma perché rafforza ed espande la visione, le capacità, i processi, l’impatto”.
Per spingere i soggetti privati a porre maggiore attenzione alle tematiche di genere un possibile strumento è quello di condizionare i finanziamenti pubblici ad un percorso di trasparenza nella “gender-policy” (forza lavoro complessiva, posizioni di vertice, retribuzioni ecc.) delle organizzazioni richiedenti. Si tratta di un intervento pensato per la call europea “Europa Creativa” ma, di fatto, applicabile anche a moltissimi ambiti nazionali. In Italia, ad esempio, una misura di questo tipo è contenuta nella Legge Franceschini sull’audiovisivo (legge n. 220/2016) mediante specifici incentivi ai produttori che mettono sotto contratto registe e autrici.
3. Più profili di donne professioniste e maggiore trasparenza nel recruiting
Spesso le aziende e le organizzazioni che assumono, lamentano che non ci sono sufficienti professioniste donne. Come risposta negli ultimi anni si vanno moltiplicando i database con curricula di donne, talvolta anche certificati da banche d’affari, adeguate ad essere reclutate in posizioni di vertice: un esempio è il caso italiano di 100 esperte. È una strada valida e il cui effetto è amplificato quando sostenuta dalle istituzioni (come in Croazia, dove dal 2016 esiste un database digitale promosso dall’amministrazione pubblica).
Il complemento naturale ad una maggiore accessibilità a curricula di donne è una maggiore trasparenza nei processi di recruiting delle posizioni di alto profilo. Se, infatti, in molte occasioni, le organizzazioni dichiarassero con chiarezza il profilo e le competenze che richiedono per i ruoli apicali, l’accesso al vertice seguirebbe un percorso meno discriminatorio.
4. Positive Action
La “positive action”, spesso implementata come modalità di accelerazione dei processi di riduzione delle diseguaglianze, è da molti ritenuta l’unica strada per invertire prassi stereotipate consolidate. Ad esempio, in Svezia, il Ministero della Cultura e della Democrazia promuove le candidature femminili qualora siano a parità di curriculum con quelle dei colleghi maschi. E in Italia si stanno sperimentando (Legge di Bilancio 2019) esoneri contributivi per tre anni per quelle società che mettano sotto contratto atlete donne, così da ridurre i gap nel professionismo sportivo.
Un esempio di “azione positiva” è quello delle quote. La legge Golfo-Mosca, operativa in Italia dal 2012 al 2019 (e rinnovata per decreto a fine 2019, per sei mandati), ha introdotto dei limiti di rappresentanza di entrambi i generi nei consigli d’amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate e delle società a controllo pubblico. L’intervento, in Italia, ha portato la quota di donne nei CDA dal 10% del 2012 al 23% del 2014 a circa il 35% del 2019.
Sono spinte gentili, assolutamente necessarie per attivare processi di accelerazione. Come quella realizzata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (che, ricordiamo, da alcuni anni porta avanti numerosi progetti di genere): “accanto alle opere in mostra, un’etichetta ha evidenziato in giallo una caratteristica dell’opera visibile, ma spesso sorvolata dallo sguardo: l’essere realizzata da un’artista”.
Una pratica sempre più in uso in molti settori delle ICC è, infine, quella dei premi dedicati alle professioniste donne. È un modo per spingere l’emersione di donne in contesti normalmente dominati da uomini, per promuovere autostima e inoltre favorire le reti al femminile.
5. Strategie di Empowerment
Il processo di rottura del cosiddetto “tetto di vetro” – la scalata delle donne al vertice delle istituzioni – è rallentato anche dagli stereotipi con cui le donne valutano le proprie capacità, frutto di una cultura patriarcale e del vissuto culturale e sociale dello stesso universo femminile. Lo stereotipo agisce più facilmente nel “vuoto” generato dalla mancanza di strumenti e metodi di governance “gender-specific”, cioè propri alla cultura e al mondo dei valori del femminile: mancando una storia e una tradizione “propria” di leadership, le donne che arrivano al vertice (o che stentano ad arrivarci) faticano a definire ed imporre modelli manageriali innovativi/alternativi ai tradizionali modelli maschili. Su questo tema interviene nella call una potente riflessione di Eleonora Pinzuti.
Secondo alcun* il potere di per sé è contrario al femminismo. Pinzuti cita la Crispin “Il sistema è più vecchio di te. […] Per essere ammessa, dovrai esibire le caratteristiche dei patriarchi che l’hanno costruito. Per fare carriera, dovrai imitarne il comportamento, fare tuoi i loro valori. E questi valori sono il potere, l’amore per il potere e lo sfoggio di potere. A quel punto, farai parte della loro cultura”, ma non ne condivide la rigidità e, segnalando che “sono stati i queer studies, a cui il femminismo deve il concetto di performatività di genere, a decostruire il dualismo filosofico e argomentativo invitando a trovare soluzioni altre”, si chiede se “si può essere femministe e ambire al potere”?
“Le donne hanno sofferto infinite afflizioni per qualche briciola decisionale: il dominio le ha sostanzialmente schiacciate, punite, vilipese e, sovente, uccise”, ci ricorda Pinzuti. E “questa posizione storica, sociale e culturale, decisamente scomoda, una volta cognitivizzata (cioè compresa) ha fatto sì che le donne mettessero in discussione non solo le forme di potere, ma il concetto stesso come portato di sopraffazione e minorizzazione. In tal senso agire il potere viene letto tout court come un atto suprematista verso altri esseri umani, donne o meno che siano”. Ma “davvero il potere è un monolite privo di pieghe, sfumature, declinazioni? O, più realisticamente, esistono infinite declinazioni del potere? Se così è, di quale potere ci possiamo servire? Esiste un potere, un empowerment positivo?”. Forse la risposta viene dal doppio senso, ancipite, di potere: “da un lato ha un significato letterale di dominio ma dall’altro quello, più pervasivo, di essere capace: poter fare”. Il potere è necessario per poter “agire il cambiamento”: “produrre cioè cambiamenti all’interno delle istituzioni attraverso la leadership nelle funzioni eccedenti, non manualizzabili, del carisma. In effetti il dominio di genere, nella sua attiva funzione di filtro, concede spazi di accessibilità a personalità carismatiche che possono usare (e spesso lo fanno) quel traguardo per mutare le condizioni di tutti. In tal senso, mentre lavoriamo a mutare il sistema, lo modifichiamo dall’interno”. Perché “senza potere non vi è nessuna possibilità di trasformazione”.
Una modalità per modificare il concetto di potere è quella che segnala Marta Equi Pierazzini, mettendo sotto analisi i percorsi del pensiero femminista negli ultimi decenni del novecento: quella di legare l’empowerment ad un percorso di auto-analisi e, quindi, di centratura. “[…] vennero cercati dispositivi di mediazione che andassero oltre i meccanismi formali delle organizzazioni burocratiche, nella ricerca di pratiche antigerarchiche e che non ricadessero nella dicotomia scoraggiante dell’avere o non avere potere. In ultima analisi, c’era l’idea che nell’ingaggiarsi con una attività imprenditoriale ne andasse del proprio sé: non solo perché le attività svolte rappresentavano la passione e l’identità delle donne coinvolte, ma anche perché vi era la ferma convinzione che non ci potesse essere trasformazione sociale alcuna senza una messa in gioco radicale di sé stesse. D’altra parte il femminismo si basa sulla convinzione che non ci sono strade possibili di liberazione né di emancipazione senza aver effettuato la tappa fondamentale della presa di coscienza”. E ancora: “In questo senso le imprese femministe fondate negli anni ‘70 costituiscono un patrimonio per noi che ci domandiamo come cambiare la cultura attraverso la partecipazione femminile. Esse ci mostrano che fare impresa (culturale) può essere qualcosa ben lontano dall’idea muscolare e individualista dell’imprenditore coraggioso che tanta letteratura ha perpetuato, ma piuttosto una creazione e coltivazione di un contesto, ossia delle condizioni di possibilità che un progetto e una visione si possano articolare a beneficio di una comunità” perché “possiamo riformulare come azione imprenditoriale quella dedicata ad un cambiamento della società, possibile solo in presenza di un cambiamento personale”.
A questo richiamo che proviene da anni di dibattito femminista, Marta Equi Pierazzini risponde invitando a porre la riflessività come un metodo di lavoro: “prima di arrivare alle generalizzabili buone pratiche, domandiamoci intimamente: quali sono le specifiche pratiche che noi, in prima persona, come operatrici culturali mettiamo in campo”.
Uno strumento utile a superare la strettoia psicologica e culturale del confronto con un concetto di potere monocorde e gender-based è quello del “mentoring”. Iniziano ad essere molte le donne arrivate al vertice che decidono di dedicare parte del proprio tempo a supportare altre donne, mediante corsi di formazione o reti associative, condividendo conoscenza e, soprattutto, strumenti, modelli, buone pratiche e politiche. E, aggiungerei, promuovendo reti. Ugualmente funzionale è inserire nell’agenda pubblica così come in tutti i percorsi educativi e formativi la storia di donne “esemplari”, come segnala anche Maria Paola Orlandini: “esemplari perché, al di là delle diversità generazionali e degli ambiti disciplinari, possono rappresentare la prova concreta di come stereotipi e pregiudizi si combattono e si vincono. Esemplari per le nuove generazioni, soprattutto per le giovani donne alla scoperta di ulteriori frontiere professionali: una modalità di empowerment basata sull’ampliamento degli strumenti di autovalutazione” (vedi a questo proposito il progetto Clandestine).
Strettamente collegato al tema dell’empowerment è quello del networking. Le donne faticano a sostenersi l’una con l’altra, a fare lobby agendo come fronte comune, a condividere esperienze, pratiche, obiettivi. Negli ultimi anni si sono moltiplicate, anche in Italia, le reti associative dedicate a fare pressione sulla politica e sull’amministrazione per influenzare positivamente le politiche pubbliche; mancano, però, ancora, reti effettive di mutuo sostegno, di cooptazione. Spesso, banalmente, le donne rimangono fuori dai processi di assunzione perché nell’individuazione dei curricula si attivano legami consolidati di conoscenza e scambio tra maschi: in sintesi la percentuale maggioritaria di uomini al potere promuove candidature maschili e, anche quando sono le donne a decidere, non sempre applicano la medesima logica di genere.
6. Una nuova narrativa…
Il pregiudizio di genere, gli stereotipi, sono frutto e allo stesso tempo generatori di una cultura della violenza (fisica, psicologica, sociale) contro le donne che risale alla notte dei tempi dell’essere umano ed è ancora lontana dall’essere completamente sradicata. “La violenza contro le donne è l’espressione di un’indomita resistenza culturale contro la quale a poco servono leggi, condanne, allontanamenti coatti. Serve piuttosto un radicale cambiamento culturale; serve espiantare la malerba del pregiudizio che spesso germoglia anche tra le donne e che le rende, involontariamente, complici di una cultura sessista che le minaccia e le esclude” indica Maria Paola Orlandini.
E vale la pena di ricordare che la violenza contro le donne, in particolare quella domestica, riguarda in Italia tutti gli strati sociali e i livelli culturali e mostra una forte omogeneità tra nord e sud, dato sorprendente in un paese normalmente spaccato in due.
Una violenza che si palesa anche nella cancellazione del portato delle donne. Come ci ricorda il contributo di Barbara Berruti e Matteo D’Ambrosio, una delle prime forme di “reazione” è proprio quella di restituire alle donne un posto nella storia e in questa direzione si ricorda, tra le tante iniziative promosse e partecipate dal Polo del 900 (in questo caso in collaborazione con Archivissima), il progetto #WOMEN che mette al centro “le figure femminili, non solo per celebrarne i successi, ma per testimoniare l’importanza dei processi di trasformazione e cambiamento che proprio le donne hanno saputo attivare, nella politica, nella letteratura, sul lavoro, nella medicina e nello sport”.
Abbiamo quindi “bisogno di una cultura collettiva che promuova il rispetto per tutte le donne, la loro dignità” e “per cambiare modello di sviluppo non si può pensare ad un esperimento sociale calato dall’alto, bisogna agire in maniera diffusa, cambiare la mentalità delle persone, che da diversi decenni in Italia è fortemente influenzata dai contenuti dell’industria mediatica”, laddove le immagini che affollano le nostre diete audiovisive “continuano a sollecitare prevalentemente un immaginario maschile che cerca emozioni forti, gratificazioni visive immediate, evasione” ribadisce Elisa Manna.
Di cosa parliamo quando parliamo di stereotipi ce lo ricorda Lorella Zanardo: “gli stereotipi di genere più utilizzati in Italia prevedono alcuni elementi ricorrenti, che si alternano o si combinano: la donna è prevalentemente corpo; la donna è irrazionale ed emotiva; la donna punta tutto sul suo aspetto fisico e sulla sua disponibilità sessuale; la donna tende per natura a prendersi cura degli altri e ad evitare i conflitti”. E aggiunge “non è certo la presenza di una singola immagine stereotipata, o di alcune immagini, per quanto aggressive, tossiche o false, a creare gravi conseguenze per il pubblico che li recepisce. Ma riproposte frequentemente e su più mezzi (televisione, pubblicità, Internet, carta stampata) e con la presunzione che siano immagini “normali, accettabili” diventano una complicazione, e non da poco”.
Gli stereotipi sono dunque un vero ostacolo alla rimozione delle diseguaglianze ed è urgente intervenire per contrastarli. Sia Elisa Manna che Lorella Zanardo invocano l’avvio di un processo di sensibilizzazione per tutti i media.
Eppure, segnala Claudia Padovani, gli interventi di politica pubblica sono ancora un passo indietro: “poco si è fatto in risposta agli impegni presi a Pechino per adottare strumenti legali e politiche che favoriscano l’eguaglianza di genere dentro e attraverso i media: la legge che regola il sistema della comunicazione (n. 112 del 3 maggio 2004) non fa menzione dei temi dell’eguaglianza e tanto meno del gender mainstreaming; né questo figura come uno degli obiettivi da realizzare nel mandato di AGCOM, che pure in anni recenti ha prodotto alcune linee guida in materia (Atto di indirizzo N. 424 del 2016)”. E “anche il documento elaborato dalla Task Force – Donne per un Nuovo Rinascimento – che pure dedica una sezione ai temi della comunicazione, non lo fa adottando una prospettiva che guardi alla necessità di superare diseguaglianze nei contenuti, nei processi e anche nelle strutture dei media, ma concentrandosi essenzialmente sull’esigenza di sviluppare linguaggi, testuali e visivi, volti a sradicare gli stereotipi, in particolare per promuovere la partecipazione di ragazze e donne nei settori scientifici”. “Lo spazio per un riequilibrio di genere nei e attraverso i settori culturali e creativi rischia dunque di rimanere assai limitato, oscurato da altre priorità, considerato prevalentemente come veicolo di contenuti altri e non essenziale come luogo di elaborazione di un pensiero e di prospettive culturali alternative” aggiunge la studiosa. Senza ovviamente trascurare la centralità del ruolo del linguaggio, come ricorda Silvia Garambois: “fino a che nel modulo di richiesta della Carta di identità ci sarà scritto che devi compilare i campi nome, cognome e poi nato (senza possibilità di barrare una “a”), la burocrazia escluderà le donne dalla pari dignità”. E anche Monica Cerutti, ricordandoci la rilevanza del primo punto del Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini: “inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori” (linguaggio solitamente ricco di “stereotipi della donna vittima debole o traditrice e dell’uomo tradito e abbandonato”).
L’importanza del linguaggio emerge con evidenza nel contributo di Giuliana Giusti che, con estrema chiarezza, mette ordine nel dibattito sulla declinazione della lingua italiana al femminile: “L’igiene verbale si manifesta sotto forma di inferenze pseudo-logiche, false etimologie, motivazioni estetiche e regole pseudo-grammaticali che giustificano comportamenti linguistici consolidati e sanzionano comportamenti linguistici che si discostano da essi. Sostenere che medica o ministra siano neologismi errati o cacofonici è allo stesso livello delle teorie sulla piattezza della terra. Infatti medica e ministra non sono neologismi (sono attestati in latino e nell’italiano delle origini, v. Vocabolario Treccani online alle voci medica e ministra); sono perfettamente dentro il sistema linguistico (che declina molti maschili in -o e femminili in -a); hanno la stessa struttura fonologica (la stessa “sonorità”) di monaca e maestra che risultano perfettamente normali e non sono cacofonici”. Quindi “la connotazione di prestigio non è associata al maschile per necessità linguistica ma solo e unicamente per convenzione sociale: non c’è nessun motivo linguistico per cui un presidente dovrebbe avere maggior prestigio o autorevolezza di una presidente”.
Ma da dove iniziare per promuovere nuove narrative? Paola Dubini guarda alla televisione pubblica come punto di partenza nella lotta agli stereotipi e segnala la buona pratica BBC per “la nomina nel 2019 di una responsabile della diversità creativa con il duplice obiettivo di migliorare la presenza e la rappresentazione nelle trasmissioni della BBC di una varietà di comunità e gruppi e di aumentare la diversity all’interno dei comitati che hanno responsabilità di programmazione”.
Non solo i media, però, ma tutto il comparto delle industrie culturali e creative è e deve essere coinvolto in questo processo di de-costruzione. Come ci ricorda Cristiana Collu a proposito dei musei, la cultura ha una missione possibile: “Come templi del sacro laicismo, i musei sono anche un campo di battaglia per diverse interpretazioni della realtà, che si manifestano attraverso posizioni e visioni diverse dalla propria”. E le possibili misure di intervento molteplici, come quelle intraprese in questi anni dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna: “Guardando alla collezione del museo che attraversa due secoli e mezzo, ma anche alle mostre temporanee che sono state e sono la modalità di comunicazione privilegiata dei musei, abbiamo constatato la minima inclusione delle artiste e abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulla rappresentazione delle donne e sugli stereotipi femminili dominanti, mettendo in evidenza come l’introduzione della prospettiva di genere inizi a mettere in crisi e a demolire le modalità residuali, asimmetriche, stereotipate, spersonalizzate, sconosciute o semplicemente assenti”.
Peraltro occorre ricordare, come ben indica Marta Equi Pierazzini, che la riflessione sulla cultura come spazio generativo di senso ha percorso il movimento femminista: “Ingaggiarsi con l’ambito culturale e farlo autonomamente significava innanzi tutto prendere le distanze da una sfera considerata come il sito principale dell’istituzionalizzazione della discriminazione, della generazione della violenza simbolica e, naturalmente, di un sessismo mascherato”; le proposte culturali sono quindi “stati modi di riscoprire, valorizzare, commercializzare e preservare le parole e il sapere delle donne. Senza la casa editrice La Tartaruga (fondata a Milano nel 1975 da Laura Lepetit) non avremmo avuto in Italia Le Tre Ghinee di Virginia Woolf, tanto per dire”.
7. … e un nuovo progetto pedagogico
La costruzione di nuove narrative non stereotipate è sicuramente un punto cruciale di una ipotetica agenda pubblica di genere, funzionale all’empowerment nonché, in un’ottica più allargata, all’abbattimento degli stereotipi nella società, fin dai primi anni di vita.
Con Patrizia Asproni “dobbiamo chiederci se il nuovo mondo non debba oggi passare attraverso le donne e, necessariamente, attraverso la loro educazione: per il potenziale che hanno ancora da esprimere […], come nuove attrici protagoniste del cambiamento in senso storico-antropologico”.
E anche secondo Elisa Manna le donne possono avere un ruolo di driver nella costruzione di un progetto educativo che ribalti gli stereotipi e le diseguaglianze.
Colpisce quanto il tema della educazione e della formazione sia centrale nella maggioranza dei contributi alla call for paper sulle diseguaglianze di genere. È indubbio che la scuola e, in particolare, l’educazione nei primi anni di vita abbia un ruolo centrale. Oggi per fortuna c’è molta più attenzione all’immaginario della prima infanzia, assolutamente centrale per la promozione di processi di cambiamento sociale: cresce la consapevolezza dell’importanza di contrastare gli squilibri di genere nei primi anni di scuola e nel complesso dell’universo emotivo di bambini e bambine a partire dal comparto dei giochi, rompendo la dicotomia “bambole per femmine e soldatini e macchinine per maschi”, così come introducendo e promuovendo favole in cui l’eroe non sia sempre e solo il principe azzurro. Però la strada è ancora lunga. Come ci ricorda Paola Dubini “gli autori e gli editori di libri per bambini hanno nel tempo ridotto la disparità di genere nel numero dei personaggi; la rappresentazione di personaggi femminili nei titoli, nelle illustrazioni e come protagoniste è aumentata, ma i ruoli rimangono legati a stereotipi tradizionali”.
Per il superamento degli stereotipi Monica Cerutti propone di introdurre “in modo strutturale nelle scuole del primo e del secondo ciclo di istruzione, l’insegnamento dell’educazione sentimentale, finalizzato alla crescita educativa, culturale ed emotiva dei giovani in materia di parità e di solidarietà tra uomini e donne, così come è già stato proposto in alcuni disegni di legge”.
E Lorella Zanardo ritiene che un passaggio fondamentale nella lotta agli stereotipi possa essere “una capillare Educazione ai Media nelle scuole (materia peraltro obbligatoria in molti Paesi europei) che fornisca alle studentesse e agli studenti gli strumenti per interpretare i messaggi mediatici che li circondano”.
Per fortuna negli ultimi anni i progetti rivolti all’educazione nelle fasce scolastiche sono in aumento. Tra questi Barbara Berruti e Matteo D’Ambrosio ci ricordano “S.U.P.E.R. – Scuola Ultratosta per Esseri Ribelli, in collaborazione con l’Associazione + Vicino, e vincitore del Bando Civica della Fondazione Compagnia di San Paolo”. Il progetto ha avviato “un ciclo di laboratori con artisti presso l’Area kids del Polo del ‘900 per allenare al cambiamento: le bambine e i bambini hanno potuto sperimentare nuovi ruoli e scoprire le loro risorse e potenzialità, attraverso il potere trasformativo dell’arte sviluppando nuovi superpoteri: collaborazione alla pari tra uomini e donne, consapevolezza civica, creatività, negoziazione, intelligenza emotiva e pensiero critico”.
È indubbio che, come osservato più volte nel corso di questa riflessione, l’introduzione nei percorsi didattici di un pensiero alternativo è strettamente legata ad un ripensamento di senso ed obiettivi del lavoro pedagogico che hanno la cultura e la creatività al loro centro. Creare schemi per romperli e ricomporli dovrebbe essere una modalità primaria dell’insegnamento, come ben ci ricorda Maria Paola Orlandini citando lo psichiatra Boris Cyrulnik che “auspicava che, nella situazione traumatica determinata dalla catastrofe della pandemia, la scuola decidesse di allentare la pressione didattica per favorire attività in grado di accrescere la fiducia dei giovani e delle giovani nelle proprie capacità e talenti. Una sorta di gap year da lezioni e registri elettronici, un anno sabbatico come liberazione dalla schiavitù dei risultati, in favore di una crescita personale coltivata praticando musica, teatro, disegno, danza: arte insomma, come strumento di autodeterminazione poetica e crescita morale. Diminuire la didattica – aumentare l’autostima”.
Ricordiamo inoltre che la apparente parità degli anni della scuola si sgretola nei processi di segregazione nei corsi universitari e nel seguente accesso al mondo del lavoro, specie nelle materie scientifiche. Su questo molte indicazioni importanti vengono dall’Atlante dell’infanzia a rischio di Save the Children, in particolare l’ultima edizione dedicata soprattutto al mondo delle bambine e delle ragazze: “i dati dell’Atlante mettono in evidenza quella che abbiamo definito l’”illusione della parità” delle bambine e delle ragazze, che a scuola godono complessivamente di una condizione di parità con i coetanei, anzi sono più brillanti nella lettura così come nelle performance scolastiche. Ma le aspettative si infrangono al primo confronto con il mondo del lavoro. E alcuni segnali si registrano già nei primi anni di scuola, ad esempio con il progressivo allontanamento delle bambine dalle materie scientifiche” ci ricorda Fosca Nomis. Se “sfogliando le oltre 100 mappe e infografiche dell’Atlante, emerge […] che tra i minori tra i 6 ei 17 anni le bambine e le ragazze leggono più dei maschi (non ha l’abitudine alla lettura il 53,6% dei maschi contro il 41,8% delle ragazze), e le ragazze hanno performance scolastiche migliori dei coetanei” il nodo sono le “lacune nelle materie scientifiche che le bambine e le ragazze accumulano durante il loro percorso scolastico, già ravvisabili dal secondo anno della scuola primaria”, criticità che impatta su tutto il percorso scolastico e universitario.
Occorre ricordare quanto la qualità del percorso scolastico e universitario impatti poi sul mondo del lavoro, un salto che le donne fanno molta fatica a compiere e che, come ci raccontano i dati dell’Atlante, diviene quasi impossibile quando manca il titolo di studio: “senza un diploma di scuola superiore, le occupate sono un esiguo 36,3%, a fronte del 70,7% dei coetanei maschi”. Le evidenze rendono concreta l’impressione che una donna debba sempre fare molta più fatica di un uomo per emergere nel mondo del lavoro.
Per affrontare questo tema Valeria Ferrero propone alcuni possibili interventi tra cui “favorire l’accesso alle facoltà scientifiche, magari anche prevedendo per le ragazze l’azzeramento delle quote di iscrizione alle facoltà scientifiche per il primo anno”.
E Fosca Nomis, ricordando che “l’alleanza fra scuola, mondo della cultura e terzo settore, ad esempio con lo strumento dei patti educativi territoriali, può rappresentare un’opportunità di mettere a sistema le risorse e garantire maggiori e migliori opportunità per bambine, bambini, ragazze e ragazzi, soprattutto in un momento complesso come quello che stiamo vivendo a causa della pandemia”, propone di usare lo spazio del Women20 (uno degli engagement group del G20), guidato da Linda Laura Sabbadini, per “porre l’accento anche sulle bambine e sulle ragazze: poiché gli stereotipi di genere e la violenza di genere si contrastano a partire dalle bambine e dai bambini, è quindi molto importante estendere lo sguardo anche a loro, rendendole protagoniste di questo percorso”.
Lo smantellamento dei pregiudizi è urgente nelle radici del sistema scolastico ma riguarda tutto il sistema, sottolineano, infine, Patrizia Asproni – “la responsabilità dell’educazione delle persone supera i confini dei sistemi scolastici e tocca la società intera” – e Carola Carazzone: “vorrei un’Italia dove gender audit e una formazione obbligatoria sugli stereotipi impliciti e i condizionamenti inconsci in materia di genere sia richiesta per legge, non solo a insegnanti, educatori, giornalisti, magistrati, avvocati, medici ma anche nei Consigli di Amministrazione di qualunque organizzazione pubblica e privata”.
8. Contrastare la “mascolinità tossica”
Sempre nella logica dello sguardo a 360 gradi, è impensabile affrontare un cambio di narrativa senza entrare nello specifico dell’immaginario maschile e degli stereotipi che ne limitano lo spazio di senso. Carola Carazzone segnala come “manchi una sfera di azione chiave per un cambiamento di paradigma culturale: da un lato, il contrasto sistematico, capillare, permanente della mascolinità tossica e, dall’altro, la promozione di nuovi modelli maschili, anche attraverso – ma non solo – la chiamata in causa e la partecipazione attiva del mondo maschile”.
Con il concetto di mascolinità tossica Carazzone fa riferimento “non soltanto ai comportamenti di machismo violento, sboccato, insultante o denigratorio che oggi è – o dovrebbe essere – sanzionato anche penalmente in qualunque ambito, ma a tutto quell’insieme di comportamenti e credenze subliminali che comprendono per i maschi il dover sopprimere le emozioni, il dover mascherare il disagio e la tristezza, il mantenere un’apparenza di stoicismo, di virilità, il non comportarsi da deboli, deferenti, accudenti o timorosi”. Il problema infatti è che “nel nostro Paese oggi ci sono – finalmente! – tanti modi di crescere una bambina, ma ancora troppo massicciamente un solo modo di crescere un maschio”. E questo ha un impatto drammatico sugli equilibri individuali e collettivi: “è come se al processo di decostruzione dei modelli tradizionali di genere mancassero i tasselli del mondo maschile e, di conseguenza, privassimo non solo i bambini ma anche le bambine di questa metà di immaginazione sociale”.
9. Un migliore bilanciamento nei ruoli familiari e tra carriera e vita privata
La carriera, per moltissime donne, è “schiacciata” a monte per la cura dei figli e a valle per la cura dei genitori anziani. Si tratta di funzioni tradizionalmente attribuite alle donne e che le costringono a prolungate assenze dal lavoro o, comunque, a rinunciare a ruoli apicali poco compatibili con il numero di ore quotidiane da dedicare alla famiglia.
Segnalano ad esempio Cristina Masturzo e Silvia Simoncelli, relativamente al settore dell’arte contemporanea, come “numerose sono le testimonianze – spesso anonime – che svelano quanto la sfera privata e familiare possa diventare un ostacolo ingombrante sulla via della realizzazione professionale. Così una gravidanza diventa motivo di grande angoscia per timore di perdere la possibilità di una mostra personale, gli inviti alle residenze dopo la maternità diventano meno frequenti perché siamo dispendiose e impegnative, e in generale se ci si prende cura della famiglia si viene percepite distanti da quell’immaginario bohemien dell’artista totalmente perso e immerso nella sua ricerca e nel suo creare”.
Negli ultimi anni le cose stanno progressivamente mutando ma una buona spinta in questa direzione viene dall’attribuzione agli uomini di un congedo parentale per occuparsi delle necessità familiari e, più in generale, da un migliore bilanciamento tra generi nella cura delle incombenze familiari.
In aumento sono, inoltre, gli interventi diretti ad aiutare le donne a rientrare nel mercato del lavoro abbandonato per la cura dei figli o di familiari malati, e le iniziative di supporto alle donne con figli.
Come mostra il contributo di Eva Frapiccini, che sottolinea quanto la pandemia abbia messo in discussione “il senso dell’attuale modello produttivo in relazione alla cura dei nostri cari”, molte di queste esperienze nascono “dal basso”, ad opera di donne, di artiste e creative, che trovano la forza per trasformare le proprie difficoltà in una occasione di rinascita per se e per la comunità: “negli ultimi venti anni sono nate diverse azioni e organizzazioni finalizzate ad una maggiore inclusività di artiste e operatrici culturali madri, di solito costrette a fermare o lasciare le loro carriere: The International Foundation for Women Artists (US), Parents in Chicago Theatre (PICT), The Sustainable Arts Foundation (US), Creative Collaborative Mothers (India), Mothers in Arts Residency (MA Residency) (Olanda), The Mothership Project (Irlanda) sono alcune delle strutture”. Nonché i progetti Procreate Project e Desperate Artwives sui quali la Frapiccini si sofferma: “Attraverso i Mother House Studios, Procreate Project offre alle artiste uno spazio di lavoro sicuro per i bambini, attrezzato con giochi e l’assistenza di educatori per i più piccoli, permettendo alle loro madri di dedicarsi al lavoro in studio” mentre “il lavoro di Desperate Artwives ci permette di focalizzare la diversità della prospettiva materna. Sia le iniziative in spazio pubblico, organizzate con la comunità formatasi intorno al progetto, sia la serie di podcast che dà voce a prospettive femministe provenienti da tutto il mondo, sono il mezzo per spostare il baricentro della produzione artistica verso ambiti più inclusivi e decolonizzati”.
È possibile anche immaginare che un domani, con gli sviluppi del telelavoro e dell’intelligenza artificiale, sia possibile promuovere scelte di lavoro compatibili con la volontà di mantenere spazio per attività extra-lavorative. Questo è un punto fondamentale perché è uno di quei casi in cui la battaglia per le “pari opportunità” diviene uno strumento di innovazione per tutta la società, una società più attenta ai bisogni collettivi, all’equilibrio, alla qualità della vita, al benessere.
Legato all’uscita dal mercato del lavoro ma, anche, a consolidati stereotipi di genere sull’invecchiamento, è infine il tema delle difficoltà delle donne più anziane a trovare un’occupazione. Critico nello star-system ma non solo, l’invecchiamento viene accettato negli uomini come sintomo di maturità e maggiore autorevolezza ma è spesso causa di scarsa considerazione delle candidature femminili. Funzionale intervento per combattere questo stereotipo, oltre alle misure già accennate che possano facilitare il rientro delle donne nel mercato del lavoro, è senz’altro la promozione di una narrativa alternativa.
10. Ripensare l’algoritmo
Ultimo ma decisivo tema è quello di ripensare a monte tutti i sistemi di gestione delle informazioni. Dati sulla salute, sull’educazione, sulle politiche pubbliche… Tutti i sistemi che regolano l’indicizzazione delle informazioni (e le conseguenti politiche) sono per lo più tarati sulla popolazione maschile, e questo sta avendo pericolosissimi effetti di accelerazione degli stereotipi di genere e avrà effetti nel tempo sempre più dirompenti. “L’Intelligenza Artificiale apprende e replica. Per mitigare il rischio che pregiudizi diffusi vengano copiati e replicati, abbiamo bisogno di donne e, più in generale, di valorizzare la diversity nei team di lavoro” segnala Valeria Ferrero, ricordando inoltre che “L’assenza delle donne nelle professioni e nella ricerca STEM non è solo un problema di talento perduto ma è un forte rischio. La tecnologia infatti non potrà soddisfare le esigenze di una popolazione diversificata se sarà disegnata solo da metà della società”.
I media e in particolare i social, inoltre, sono un terreno di battaglia di valori sociali e di nuovo, purtroppo, a soccombere sono spesso e volentieri le donne. Segnala Silvia Garambois: “un reale ostacolo alla libertà di espressione delle giornaliste è il fenomeno, recente ma clamoroso, del linguaggio d’odio. Gli osservatori (per ex. Vox – osservatorio sui diritti, Amnesty) rivelano che sono le donne le vittime maggiori di hate speech, seguite da migranti e stranieri. Le giornaliste che si occupano di questi temi sono un preoccupante bersaglio del linguaggio d’odio, tale da rischiare di condizionare la loro piena libertà professionale per minacce e attacchi sessisti violenti”.
Il movimento Triple A: Affirmative Action for Algorithms e la W@tt’s declaration punta l’accento su tre azioni chiave: promuovere e adottare linee guida che stabiliscano accountability e trasparenza nel processo di definizione degli algoritmi, sia nel settore pubblico che privato; includere una varietà intersezionale e un numero uguale di donne e uomini nella creazione, progettazione e codifica nel processo di definizione degli algoritmi; impegnarsi nella cooperazione internazionale e in un approccio alla definizione degli algoritmi e all’apprendimento automatico che si fondi sui diritti (umani).
IL PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA, LA CULTURA E LE DONNE
“L’Italia non potrà dirsi sostenibile se non saprà affrontare e ridurre le disuguaglianze di genere, generazionali e territoriali, che sono i principali fattori di esclusione sociale nel nostro Paese. Pertanto, la realizzazione degli interventi connessi agli assi strategici del Piano diventa uno strumento essenziale per affrontare e risolvere le criticità relative a tre priorità trasversali: le donne, i giovani, il Sud. Su queste priorità si concentrano le maggiori disuguaglianze di lungo corso e i maggiori fabbisogni di investimento”. Questa la riflessione centrale del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che intercetta i driver di un cambiamento possibile e necessario. Il tema della parità attraversa quindi le misure del Piano in modo orizzontale, aprendo delle opportunità di intervento che è urgente cogliere e rafforzare.
La stessa logica trasversale non tocca la cultura, inserita nella missione 1 – digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura – perdendo l’occasione di acquisire quel potere trasformativo della cultura come potente agente di trasformazione sociale, non solo nella specifica eccellenza nazionale ma, anche, in un ragionamento sistemico di valore aggiunto europeo.
Nella ratio del Piano, comunque, risulta evidente quanto il vero detonatore delle politiche sia proprio la capacità di mettere in relazione divari, bisogni, processi che, per definizione, non hanno natura settoriale ma sono frutto di processi compositi e necessitano, per questo, di visioni integrate.
In questa direzione ragionare sulla convergenza tra pensiero trasformativo della cultura e pensiero trasformativo delle donne, sull’inclusione sociale e la costruzione di una nuova narrativa, è una pista di grande stimolo che apre una prospettiva di possibili interventi e misure di rilevante impatto sociale ed economico. Su queste tematiche Letture Lente, come sopra sintetizzato, ha aperto un importante dibattito che, nei prossimi mesi, integrerà la rilevanza e la sfida del NextGenerationEU nel suo punto di caduta.
IL PENSIERO APERTO DELLE DONNE
“Il sostegno alla cultura, non certo solo come edutainment ma nel suo ruolo chiave di cantiere di immaginazione sociale per una società più democratica, più equa, più salubre, è urgente e prioritario, mai come in questo momento” ricorda Carola Carazzone, Presidente di Dafne. “Arte e cultura sono fondamentali per elaborare i lutti, le violenze, le discriminazioni, per immaginare alternative al conformarsi alle norme sociali dominanti e mettere in discussione condizionamenti acquisiti, per consolidare e disseminare valori sociali di equità e giustizia”.
In coerenza con lo spirito di Letture Lente e di questa chiamata che si è posta l’obiettivo di dare voce al dibattito delle idee sull’esclusione di genere, chiudiamo una prima fase di raccolta della ricchezza di contributi, mettendo in relazione due pensieri. Quello della scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie citata da Maria Paola Orlandini: “L’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia”. E quello dell’economista Amartya Sen, che auspica un ampliamento delle capabilities, ovvero le opportunità effettive, la libertà, per tutti e tutte, di scegliere tra diverse vite possibili.
Crediamo che le donne abbiano diritto a fare questa scelta, e costruire delle storie nuove, trasformative, inclusive. E crediamo che la cultura possa essere una delle strade maestre di questo percorso, come acceleratore, detonatore e, al contempo, punto di arrivo di un nuovo orizzonte di senso e felicità.
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Un percorso di ascolto realizzato in partnership con
Soroptimist International d’Italia Club di Torino, in occasione del 70mo anniversario dalla fondazione, ha delineato una strategia di azione che punta sulla cultura come risorsa per una trasformazione sociale responsabile: una risposta alle sfide dello scenario pandemico che sta generando nuove diseguaglianze e profonde ferite, a livello personale e dei sistemi sociali, compromettendo diritti.
Il Soroptimist è una associazione mondiale di donne di elevata qualificazione professionale, provenienti da diverse aree, al fine di favorire il dibattito interno e la circolazione di idee per agire efficacemente a favore di una società più giusta ed equa, attraverso azioni concrete per la promozione dei diritti umani, del potenziale femminile e dell’avanzamento della condizione delle donne, coniugando locale, nazionale e internazionale.