
Contributo ricevuto in risposta alla prima “call for papers” di Letture Lente, a cura di Flavia Barca
Parto da una considerazione: per la piena attuazione della Costituzione, a partire dall’art.3 che ci vuole tutte e tutti eguali, servono leggi buone e giuste, una educazione alla parità che nasce dalla scuola, una burocrazia rispettosa delle donne, e una informazione – sui giornali e in tv – che accompagni la crescita culturale del Paese, con le parole giuste, che restituiscano alle donne il ruolo che loro compete con le eccellenze che hanno conquistato.
LE LEGGI
Le leggi rispecchiano la società, ed è ancora in fremente attesa di andare in pensione quella generazione cresciuta con lo jus corrigendi – abrogato nel 1963 – che considerava un bel ceffone il modo di mandare avanti la famiglia (“tu picchiala, lei sa perché”) e con il Codice Rocco – abrogato solo nel 1981 – per cui se chi ti aveva stuprato poi ti chiedeva in moglie, l’onore della famiglia era salvo (a te non piaceva? “Fa niente: sposalo”), per non dire del fatto che se lui ammazzava la moglie per gelosia aveva tutte le attenuanti del caso (se l’assassino era lui, non lei: nessuna reciprocità). E vogliamo ricordarcelo che fino alla vigilia del secondo millennio – 1996 – la violenza contro le donne era ancora un reato contro la morale, e non contro la persona? Questa è la nostra cultura profonda, l’educazione che passa nel DNA.
LA SCUOLA
Mille passi avanti da quando in classe c’erano di qua i bambini e di là le bambine (o le classi divise): eppure non era il Medioevo. Ma è di ora, di adesso, la denuncia che nei nuovi libri per le prime classe c’è sempre la mamma che stira e il papà che va al lavoro, la mamma che cucina e il papà che riposa sul divano: assai spesso nelle case non è più così, stirano e cucinano in due, si rilassano in due, ma ai più piccoli si insegna che la mamma deve almeno fare doppio lavoro. O triplo.
LA BUROCRAZIA
Fino a che nel modulo di richiesta della Carta di identità ci sarà scritto che devi compilare i campi “nome, cognome” e poi “nato” (senza possibilità di barrare una “a”), la burocrazia escluderà le donne dalla pari dignità. E tutte le raccomandazioni emanate da oltre 30 anni dalla Presidenza del Consiglio resteranno carta straccia (1987 – Il sessismo nella lingua italiana – Raccomandazioni per un uso non sessista, di Alma Sabatini; 1997 – Manuale di stile – Strumenti per semplificare il linguaggio delle pubbliche amministrazioni; 2007 – Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle pubbliche amministrazioni; 2008 – La neutralità del linguaggio di genere nel linguaggio usato al Parlamento europeo).
L’INFORMAZIONE
Questo è il mio campo. E su questo per cominciare darò un po’ di numeri.
La presenza delle donne nei media italiana è massiccia, sfiora il 40%. I dati dell’Ordine dei giornalisti, secondo il rilevamento di genere più recente (settembre 2018), raccontano che, su una platea di oltre 100mila giornalisti iscritti, le donne sotto i 35 anni rappresentano il 46,39%, tra i 35 e i 64 anni – cioè la parte più numerosa della categoria – sono poco sopra il 43%, mentre oltre i 64 anni il dato della presenza femminile crolla al 20,11%. Nella realtà professionale, tuttavia, i giornalisti effettivamente al lavoro sono circa 15mila con un contratto nei giornali e circa 15mila free-lance, ma le percentuali uomo/donna sono le stesse (41% di donne in redazione, 44% tra i free-lance).
Questi dati anagrafici confermano comunque come la svolta nella presenza femminile nei giornali sia avvenuta nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso, con l’avvento e il proliferare delle prime “radio libere” e “tv libere”, terreno di sperimentazione con alta percentuale di partecipazione delle donne, e un deciso ingresso nelle testate tradizionali. Nei decenni precedenti la presenza femminile era residuale.
Apro una parentesi. Io in quei “favolosi anni Settanta” c’ero, ed ero la prima (e per altro giovanissima) cronista ad occuparmi di cronaca nera a Firenze e a varcare la soglia della Questura. Stavano per cambiare molte cose in Polizia, ma intanto cambiava il fatto che in un ambiente solidamente maschile si affacciava una ragazzina. Intanto, giù i piedi dalle scrivanie quando arrivavo, e poi funzionari e colleghi che abbandonavano d’incanto il linguaggio “da caserma” che fin lì si erano scambiati. La presenza delle donne forzosamente cambiava la cultura. E contemporaneamente la stessa cosa avveniva nello sport, quando la mia amica e collega – purtroppo prematuramente scomparsa – Manuela Righini, non si accontentò più di aspettare i giocatori della Fiorentina fuori dagli spogliatoi mentre i colleghi maschi entravano: e un giorno fece “irruzione” anche lei, creando il massimo scompiglio. (Da allora solo incontri lontano dalle docce, nonostante le proteste e i malumori dei giornalisti sportivi).
Riprendiamo con i numeri e con la “piramide del comando” nei giornali. L’importante numero oggi di donne nei media non ha infatti riscontro nei processi decisionali dei giornali. Secondo gli ultimi dati: su un totale di 306 direttori, 241 sono uomini e 65 donne; tra i 193 vicedirettori 154 uomini e 39 donne; nell’ufficio dei capiredattori, su un totale di 1.313 contrattualizzati, 942 sono uomini e 371 donne. (Questi dati – aggiornati al dicembre 2017 – sono ricavati dalle dichiarazioni previdenziali all’Inpgi, l’istituto che eroga le pensioni ai giornalisti italiani).
Non tragga in inganno l’alto numero di direttori: si tratta in larghissima parte di responsabili di testate giornalistiche molto piccole, in cui è assente una vera e propria struttura giornalistica. Nella realtà delle maggiori testate, invece, la piramide del comando è saldamente in mano maschile: basta pensare che in televisione è stata fatta tabula rasa di direttrici. Non ce ne sono nei tg della Rai, in quelli di Mediaset, a Sky e a La7. Zero. (Fino a pochi anni fa lamentavamo di avere una sola direttrice nei tg della tv pubblica Rai, due condirettrici depotenziate a Mediaset, la direttrice della all news di Sky: abbiamo fatto dei bei passi indietro).
Non va meglio nei grandi quotidiani, dove tra i maggiori dieci sono presenti due sole direttrici, al manifesto e alla Nazione. Sia in tv che nei giornali negli ultimi anni la presenza di donne al vertice si è contratta.
Vogliamo parlare di soldi? Non va meglio. Il “pay gap gender”, la differenza economica, riguarda tutti gli incarichi e tutte le età. La retribuzione media degli uomini sfiora i 60mila euro, mentre supera di poco i 52mila quella delle donne. Per fare un esempio: la retribuzione media di un caposervizio è di più di 82mila euro, quello di una caposervizio si ferma a 75mila. Una differenza retributiva che compare fin dall’inizio della carriera, visto che i giornalisti sotto i 30 anni guadagnano mediamente 19.100 euro, mentre le giornaliste non arrivano a 18.500 (dati Inpgi dic. 2017).
Ovviamente si aprono parecchi interrogativi, dal momento che le donne come gli uomini sono disposte e disponibili a fare i turni di notte e quelli dell’alba, i festivi, ad andare inviate in giro per l’Italia e il mondo. E allora per quale motivo fin da giovanissime restano un passo indietro? Pesano le scelte sull’organizzazione del lavoro, pesano le maternità (e le carriere bloccate), pesa il fatto che sono le prime ad andare in cassa integrazione?
Vedremo, a bocce ferme, quanto ha inciso il Covid (e lo smart working) sul tema delle eguaglianze e delle diseguaglianze.
Ancora un tema, delicatissimo. Un reale ostacolo alla libertà di espressione delle giornaliste è il fenomeno, recente ma clamoroso, del linguaggio d’odio. Gli osservatori (per ex. Vox – osservatorio sui diritti, Amnesty) rivelano che sono le donne le vittime maggiori di hate speech, seguite da migranti e stranieri. Le giornaliste che si occupano di questi temi sono un preoccupante bersaglio del linguaggio d’odio, tale da rischiare di condizionare la loro piena libertà professionale per minacce e attacchi sessisti violenti. Così violenti che c’è da vergognarsi a leggere a voce alta i messaggi che arrivano alle colleghe.
CONCLUDENDO
È in questa situazione che lavorano le giornaliste: poco potere, meno soldi, grandissima volontà (e persino coraggio nell’affrontare difficoltà non solo psicologiche pesantissime). Eppure una delle nostre maggiori preoccupazioni è l’informazione che diamo. Per questo è nata l’associazione GiULiA giornaliste, che opera a stretto contatto con le Cpo della Fnsi, dell’Usigrai, dell’Ordine dei giornalisti, per superare una informazione che non rispetta abbastanza la dignità delle donne, che non valorizza a sufficienza le sue eccellenze.
Dal 25 novembre 2017 abbiamo promosso il “Manifesto di Venezia”, un decalogo per una scrittura responsabile contro la violenza alle donne, per la promozione della figura femminile, per il rispetto anche linguistico della dignità della donna, nella scrittura e nell’uso delle immagini: non una carta deontologica, ma una assunzione diretta di responsabilità dei giornalisti – ormai con ben oltre mille firmatari, tra cui molti direttori e direttrici. Perché i giornali sostengano quel cambiamento culturale che è scritto così bene nella nostra Costituzione.
Silvia Garambois. Nata a Torino ma romana di adozione, ha passato la vita tra informazione, politica e sindacato. Entrata giovanissima tra le fila dell’Unità, ha passato qui 25 anni della sua carriera come caporedattrice e segretaria di redazione, fino alla chiusura della vecchia gestione nel luglio 2000. Rimasta collaboratrice della testata, scrive anche critiche televisive sulla free-press Dnews, editoriali sui temi del lavoro sul sito della Cgil www.radioarticolo1.it, racconta l’attualità ai bambini sulla free press per le scuole elementari di Roma Il Colosseo. Scrive sui problemi dei giornali e della tv sulla testata Cometa, dedicata a informazione e ambiente. Consigliera d’amministrazione dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti, dal ’97 fa parte della Commissione Pari Opportunità della Federazione della Stampa e dal maggio del 2019 Presidente di GiULiA Giornaliste.
ABSTRACT
For the full implementation of our Constitution – starting from Article 3, which declares that all women and men are equal – we need good and fair laws, an education that promotes gender equality in and through school, a bureaucracy that respects women, and a news system – including newspapers and TV channels – that accompanies the cultural growth of our country with the right words, giving women back the role they deserve and the excellence they have conquered. Today, one of our biggest concerns is about the kind of information we give. This is why the association “GiULiA Journalists” is born, in order to overcome inaccurate and unreliable news that does not respect enough the dignity of women, and does not sufficiently value their excellence.
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Un percorso di ascolto realizzato in partnership con
Soroptimist International d’Italia Club di Torino, in occasione del 70mo anniversario dalla fondazione, ha delineato una strategia di azione che punta sulla cultura come risorsa per una trasformazione sociale responsabile: una risposta alle sfide dello scenario pandemico che sta generando nuove diseguaglianze e profonde ferite, a livello personale e dei sistemi sociali, compromettendo diritti.
Il Soroptimist è una associazione mondiale di donne di elevata qualificazione professionale, provenienti da diverse aree, al fine di favorire il dibattito interno e la circolazione di idee per agire efficacemente a favore di una società più giusta ed equa, attraverso azioni concrete per la promozione dei diritti umani, del potenziale femminile e dell’avanzamento della condizione delle donne, coniugando locale, nazionale e internazionale.