
Contributo ricevuto in risposta alla prima “call for papers” di Letture Lente, a cura di Flavia Barca
Siamo state amate e odiate,
adorate e rinnegate,
baciate e uccise,
solo perché donne.
(Alda Merini)
Quest’anno il 25 novembre, la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, dovrebbe essere l’occasione per un’ampia riflessione su ciò che è stato portato avanti nel contrasto e nella prevenzione del fenomeno, su cosa non stia funzionando o sia necessario potenziare o totalmente ripensare, visto l’aumento di richieste di aiuto durante la pandemia. Per questo problema, come per altri, il 2020 potrebbe segnare un cambio di rotta che porti a modificare le politiche in campo in modo significativo perché divengano più efficaci, e le donne non siano più maltrattate e “uccise solo perché donne”.
NUMERI IN CRESCITA
L’Istat ha condotto un’analisi [1] delle chiamate nel periodo di lockdown, compreso tra il primo marzo e il sedici aprile 2020 al numero verde 1522, messo a disposizione dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per aiutare e sostenere le vittime di violenza di genere e stalking, raffrontandole con lo stesso intervallo dell’anno precedente. Le telefonate valide sono state 5.031, il 73% in più rispetto al 2019. Le donne che hanno chiesto aiuto sono 2.013 (+59%). La casa è nel 93,4% delle chiamate il luogo della violenza, che nel 52,7% dei casi è fisica e nel 43,2% psicologica. Questo incremento è sicuramente collegato alle campagne di sensibilizzazione promosse dal Dipartimento, sui canali televisivi e social, ma è anche indice di quanto l’abitazione familiare, spazio forzato di convivenza durante il lockdown, sia il contesto in cui si manifesta prioritariamente la violenza di genere. Contemporaneamente sono però diminuite le denunce dei maltrattamenti in famiglia (-43,6%).
Questi dati, seppur parziali, ci restituiscono la complessità del fenomeno, a cui si cerca di dare delle risposte con la rete dei Centri antiviolenza (CAV), in cui sono accolte, a titolo gratuito, le donne vittime di violenza e i loro figli minorenni, offrendo loro ascolto, accoglienza, orientamento e accompagnamento ad altri servizi territoriali, supporto legale, consulenza psicologica, sostegno all'autonomia e orientamento lavorativo, e delle Case Rifugio, che sono “strutture dedicate, a indirizzo segreto, che forniscono alloggio sicuro alle donne che subiscono violenza e ai loro bambini, a titolo gratuito e indipendentemente dal luogo di residenza” [2].
Proprio in questi giorni, sono stati resi pubblici i risultati delle rilevazioni condotte l’anno scorso dall’Istat [3], con il supporto delle Regioni, sulle prestazioni e i servizi offerti da questa rete nel 2018. Al 31 dicembre i CAV sono 302, pari a 0,05 Centri per 10mila abitanti, un valore stabile rispetto al 2017. Sono state 49.394 le donne che si sono rivolte ai CAV (+13,6% rispetto al 2017). Ciascun Centro è a sua volta collegato ad una rete territoriale, spesso coordinata dal Comune, la Prefettura o la Provincia/Città metropolitana, e di cui fanno parte anche i servizi sociali, sanitari, le forze dell’ordine, le associazioni di volontariato.
Ogni anno aumenta il numero delle donne che decidono di rivolgersi ai CAV. Ciò non significa che necessariamente aumentino le violenze, ma certamente emerge un sommerso che finora le istituzioni non sono riuscite ad intercettare nella sua interezza. Bisogna osservare che invece le risorse, per la quasi totalità pubbliche, destinate al funzionamento dei Centri e delle Case Rifugio non crescono proporzionalmente. Dall’analisi emerge che i Centri riescono a rispondere alla domanda crescente basandosi sul lavoro volontario: le operatrici che lavorano nei Centri sono 4.494, di cui ben 2.492 (55,5%) sono impegnate esclusivamente in forma volontaria e solo 2.002 sono retribuite. In più, il finanziamento pubblico viene erogato sotto forma di bandi, non garantendo la continuità delle attività.
Sarebbe fondamentale superare questo tipo di organizzazione, riconoscendo una volta per tutte come priorità nell’agenda di genere, e in corrispondenza nell’agenda politica generale, il contrasto alla violenza di genere, prevedendo finanziamenti adeguati al fine di rendere stabile la rete dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio, al pari di altri servizi che vengono garantiti alle cittadine e ai cittadini. In questo modo, i Centri avrebbero anche le risorse necessarie a sostenere i percorsi di autonomia delle donne maltrattate, in particolare l’abitazione e il lavoro, per non obbligarle a rimanere nel nucleo familiare subendo situazioni intollerabili.
VERSO UNA NUOVA AGENDA DI GENERE
Questo cambiamento dovrebbe riguardare anche le politiche di prevenzione, ancor più importanti. Gli ambiti di intervento sono molteplici, parecchi sono già delineati nel Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020 [4], ma non hanno condotto finora ai risultati sperati.
Per certi aspetti stiamo assistendo, al contrario, a una sorta di regressione culturale, o comunque sembra che le politiche messe in atto non riescano ad incidere in modo significativo su un rinnovamento che porti al superamento del modello patriarcale, per cui l’uomo considera la donna sua proprietà.
Emblematico è ciò a cui assistiamo nell’ambito dell’ordinamento penale. Se da una parte il cosiddetto “Codice Rosso”, introdotto nel 2019, ha l’obiettivo di aumentare sensibilmente le pene e inasprire il trattamento penitenziario dei condannati, dall’altra alcune recenti sentenze paiono andare in direzione esattamente opposta, suscitando anche reazioni indignate da parte della società civile.
Una è quella della Corte di appello di Bologna del 2018 relativa all’uccisione di Olga Matei, che aveva portato alla riduzione della pena per l’assassino da trent’anni a sedici, basandosi su un supposto stato emotivo passionale, che avrebbe scatenato una “soverchiante tempesta emotiva”, sentenza per altro annullata poi dalla Cassazione.
Quest’anno la sentenza della Corte di appello di Milano del 13 luglio ha ridotto la pena all’imputato di violenza sessuale, lesioni e sequestro di persona, ai danni della compagna convivente, ipotizzando che l’uomo abbia agito “forse perché esasperato dalla condotta troppo disinvolta della convivente”.
Queste considerazioni rientrano nel pregiudizio per cui la donna è responsabile parzialmente o interamente di ciò che le è accaduto, subendo in diversi casi una vittimizzazione secondaria, cioè una seconda aggressione da parte delle istituzioni.
Anche la narrazione dei femminicidi è spesso ricca di particolari morbosi o superflui, descrivendo il comportamento dell’uomo come un “raptus”, o una manifestazione di “passione”, “gelosia”, indotta sovente dalla minaccia di abbandono da parte della donna, della quale vengono indagati particolari di vita, come la presenza di un amante, quasi a giustificare la reazione maschile. Bisognerebbe superare gli stereotipi della donna vittima debole o traditrice e dell’uomo tradito e abbandonato.
A questo riguardo, dovrebbero essere rilanciati gli impegni contenuti nel “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini” [5], sottoscritto a Venezia il 25 novembre 2017.
Il primo punto fondamentale di questa carta, “inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori”, ci suggerisce altre due priorità nella definizione di una nuova agenda di genere.
La prima è quella di andare oltre l’obiettivo contenuto nel Piano nazionale di “promuovere un'offerta formativa che assicuri l'educazione al rispetto, all'inclusione e alla parità”, introducendo in modo strutturale nelle scuole del primo e del secondo ciclo di istruzione, l’insegnamento dell’educazione sentimentale, finalizzato alla crescita educativa, culturale ed emotiva dei giovani in materia di parità e di solidarietà tra uomini e donne, così come è già stato proposto in alcuni disegni di legge.
La seconda è quella di esportare il contrasto alla violenza di genere nelle realtà che normalmente non se ne occupano, perché solo un impegno multidisciplinare e intersettoriale può provocare significativi cambiamenti. Ciò significa che le azioni man mano individuate devono essere programmate in tutti gli ambiti, non solo nel settore delle pari opportunità, che deve avere la regia, ma non esserne l’unico depositario. Analogamente nelle reti territoriali, insieme ai Centri Antiviolenza e alle Case Rifugio e a chi si occupa direttamente della prevenzione e del contrasto alla violenza di genere, come i servizi sociali e i servizi sanitari, debbono essere presenti gli ordini professionali, il mondo delle imprese, i sindacati, in modo da individuare iniziative comuni, a partire da quelle di sensibilizzazione e promozione della conoscenza delle possibilità offerte alle donne che vogliono uscire dalle situazioni di maltrattamento. Non dimentichiamoci che la violenza crea il vuoto intorno.
Un vero cambiamento non può prescindere da questo tema.
Monica Cerutti, laureata in Scienze dell’Informazione all’Università di Torino, ha conseguito un master in Informatica e Telecomunicazioni al Politecnico. Nell’ambito lavorativo si è occupata di automazione industriale e poi di telecomunicazioni. Attualmente collabora con il Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino come ricercatrice sul tema “inclusione e digitale”. Alla carriera professionale ha affiancato la militanza politica che l’ha portata ad essere eletta prima Consigliera di Circoscrizione, poi Consigliera comunale a Torino, quindi Consigliera regionale, e infine a essere nominata Assessora regionale (2014-2019) del Piemonte con le deleghe: pari opportunità, diritti civili, diritto allo studio universitario, politiche giovanili, immigrazione, cooperazione internazionale e tutela dei consumatori. Nel 2019 è stata nominata ambasciatrice di Telefono Rosa Piemonte.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Istat, Violenza di genere al tempo del Covid-19: le chiamate al numero verde 1522 – data di pubblicazione 13 maggio 2020. [2] e [3] Istat, I Centri antiviolenza: principali risultati dell’indagine condotta nel 2019 – data di pubblicazione 28 ottobre 2020. [4] Piano d’azione contro la violenza sessuale e di genere 2017-2020 – Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. [5] Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini – Federazione Nazionale Stampa Italiana – 25 novembre 2017.ABSTRACT
This year, the International Day for the Elimination of Violence against Women – 25 November – should be an opportunity to rethink the actions to prevent and fight the phenomenon. Every year, the requests of help from women increase, particularly during the pandemic. But the resources for the network of anti-violence centers and shelters do not grow proportionally. Then, it is necessary to allocate adequate resources, in particular to build paths of autonomy, home and work, for women who want to get out of situations of violence. Another area of intervention is prevention, working on the language of the media and the sentimental education in schools. Finally, a transversal commitment is essential: not only the equal opportunities sector must deal with this issue, but also professional associations, business world, trade unions.
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Un percorso di ascolto realizzato in partnership con
Soroptimist International d’Italia Club di Torino, in occasione del 70mo anniversario dalla fondazione, ha delineato una strategia di azione che punta sulla cultura come risorsa per una trasformazione sociale responsabile: una risposta alle sfide dello scenario pandemico che sta generando nuove diseguaglianze e profonde ferite, a livello personale e dei sistemi sociali, compromettendo diritti.
Il Soroptimist è una associazione mondiale di donne di elevata qualificazione professionale, provenienti da diverse aree, al fine di favorire il dibattito interno e la circolazione di idee per agire efficacemente a favore di una società più giusta ed equa, attraverso azioni concrete per la promozione dei diritti umani, del potenziale femminile e dell’avanzamento della condizione delle donne, coniugando locale, nazionale e internazionale.