
Abbiamo conversato con Raffaela Perna, ricercatrice alla Sapienza di Roma in Storia dell’arte contemporanea, autrice di molti studi e curatrice di mostre importanti per la sistematica valorizzazione delle esperienze estetiche delle artiste italiane degli anni Sessanta e Settanta, vicine alle istanze femministe. Il suo sguardo rigoroso ci ha permesso di mettere in connessione l’eredità storica con l’attualità delle tematiche di genere, sottolineando che molto progresso è stato fatto, ma che bisogna mantenere il dibattito vivo anche grazie al contributo dell’arte odierna.
ROMA. UN INTERESSE PER L’ARTE AL FEMMINILE NEGLI ANNI SESSANTA E SETTANTA
Raffaella Perna ha una competenza molto ampia e documentata sulla scena artistica al femminile in Italia fra gli Anni Sessanta e Settanta. Con il volume Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta (Postmedia Books, 2013) ha iniziato ad analizzare le relazioni tra arte e pratica politica femminista, volgendo lo sguardo sul lavoro di artiste italiane che, dieci anni fa, faticavano ancora ad avere visibilità e a entrare nel dibattito storico-artistico. Fino a quel momento, le figure note erano solamente Giosetta Fioroni (1932), Laura Grisi (1939-2017) e Ketty La Rocca (1938-1976).
Perché non erano emersi altri profili in un periodo in cui invece ferveva il dibattito femminista?
Fondamentali gli spunti di Silvia Bordini, storica dell’arte contemporanea alla Sapienza di Roma, con la quale Raffaella Perna ha studiato e che le ha fatto intercettare figure del calibro di Lea Vergine e Carla Lonzi, in un momento in cui l’università non dimostrava particolare interesse per i loro studi critici.
Carla Lonzi era più nota per gli scritti femministi, che non quelli critico-estetici. Un volume come Autoritratto, con la sistematica raccolta delle sue interviste ai principali artisti coevi, non veniva ristampato da anni. Il suo primo studio, dunque, le ha permesso di entrare in contatto con figure come la fotografa Marcella Campagnano (1941) e il suo lavoro Donne. Immagini del 1976 per Moizzi editore; l’artista e performer Bianca Pucciarelli in Menna, alias Tomaso Binga (1931) e l’artista e curatrice Mirella Bentivoglio (1922-2017), promotrice di numerose mostre dedicate al lavoro delle artiste attive nell’ambito della Poesia visiva.
“In Italia non c’è stata solo l’Arte povera negli Anni Settanta, che sembrava l’unica esperienza importante e ufficiale del nostro Paese quando studiavo. Un movimento rilevante è stato quello della Poesia visiva, che ha coinvolto numerosissime artiste di qualità e profondità, rimasto marginale. Grazie alla prospettiva di Griselda Pollock, ospite alla Sapienza durante i miei studi, ho aperto gli occhi e ho tentato di cambiare il canone di riferimento”, ci spiega Raffaella Perna.
“Mi sono resa conto che Regno Unito e Francia avevano dedicato alle loro artiste una minuziosa rilettura, che mancava quasi del tutto in Italia. Sembrava che l’incontro tra arte e femminismo fosse mancato, ma la verità era che un oblio di oltre 15 anni era piombato sul tema e pochissime figure se ne occupavano”.
UN’EREDITÀ RICCA E SFACCETTATA
Con il diffondersi di ricerche e studi, la storia dimostra che il legame fra femminismo e mondo dell’arte è stato ricco e multi-sfaccettato. Non solo Carla Lonzi e Carla Accardi hanno fondato Rivolta femminile, come ricostruisce Marta Seravalli con il volume Arte e femminismo a Roma negli Anni Settanta (2013), ma anche artiste come Susanne Santoro e Cloti Ricciardi sono state molto attive in quegli anni, con poca fortuna. Libera Mazzoleni (1949) aveva una scarsa bibliografia, così come Tomaso Binga aveva una sola monografia importante. Le ricerche condotte da Perna per il libro del 2013 e per la mostra Altra misura tenuta nel 2015 alla Galleria Frittelli di Firenze sono all’origine della mostra del 2019 Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e femminismo in Italia (co-curata con Marco Scotini presso Frigoriferi Milanesi a Milano), che ha rimesso in fila una poliedricità di esperienze. Su questo solco, la curatrice ha avviato una rubrica fissa su Flash Art su arte e femminismi. Allo stesso modo la studiosa ha permesso di recuperare altre figure capitali: la fotografa Paola Mattioli (1948) con la quale nel 2017 ha realizzato un’intervista sulla ridotta attenzione critica riservata, negli anni Settanta in Italia, ai legami tra arte e femminismo e, più in generale, all’arte delle donne; e poi quella della gallerista bresciana Romana Loda, di cui ha studiato l’archivio e ricostruito la vicenda critica nel 2020 nella mostra Il volto sinistro dell’arte. Romana Loda e l’arte delle donne, nell’ Apalazzo Gallery a Brescia.
Raffaella Perna sottolinea che in quegli anni sono nati molti collettivi di artiste come il Gruppo del mercoledì che ha dato vita al volume del 1978 Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, dove le artiste hanno messo a fuoco la possibilità di una nuova rappresentazione della donna. Oppure il Gruppo femminista Immagine di Varese, o la Cooperativa Beato Angelico di Roma, fondata nel 1976 fra le altre da Carla Accardi, Stephanie Oursler, Susanne Santoro, Silvia Truppi, con l’obiettivo di esporre artiste del passato (per esempio Artemisia Gentileschi), per riaccendere la ricerca sul femminile nell’arte.
In generale tutte queste esperienze hanno proposto un altro linguaggio ed estetica, riflettendo intorno al tema del corpo della donna e alla sua mercificazione, sulla manipolazione delle immagini per assecondare il mercato dei consumi e sul ruolo dei mass media. L’idea era anche scardinare l’immagine della donna irrazionale, colta dall’emotività, fragile, pericolosa, cercando di demistificare gli stereotipi.
LA SITUAZIONE ODIERNA
Nel 2019 il museo Macro di Roma ospitò un convegno dal titolo: “Donne artiste in Italia/ Femme[e] – arte [eventualmente] femminile” dove è emersa una riflessione importante sullo stato della condizione delle artiste in questi anni: “Prima del covid, la narrazione sulle artiste contemporanee e la rivalutazione delle figure storiche hanno assunto un peso rilevante nelle riviste di settore” testimonia Raffaella Perna; “Purtroppo, altrettanto non possiamo sostenere sui dati di partecipazione delle donne in mostre pubbliche, fiere, residenze, premi. Non credo che la pandemia abbia ridotto questo gap, anzi. Le condizioni di lavoro non sono paritarie fra uomini e donne, nemmeno nel mondo dell’arte, sebbene la retorica sia entusiasta a favore delle seconde. L’unica strada per uscire da questo divario rimane un’azione di ricerca seria sul lavoro delle artiste, la costruzione di un sistema di supporto su tutta la linea, dagli accessi a spazi espositivi, a fondi per la progettazione e produzione, fino alla formazione e scambi internazionali con le residenze”.
Rimane una linea di continuità con la storia degli Anni Settanta: molte artiste lavorano ancora sulla riappropriazione del corpo e la denuncia della sua mercificazione e manipolazione, anche attraverso l’indagine sul linguaggio, ma l’approccio è meno collettivo e più personale.
Secondo Perna le artiste italiane, oggi, hanno allargato l’indagine a temi attuali come le relazioni tra identità di genere e migrazione, tra centro e periferia in senso geografico, politico e culturale. Oppure hanno riflettuto sul portato storico di figure alla base del pensiero del femminismo degli anni Settanta (Carla Lonzi su tutte). È importante riscontrare come anche gli uomini si siano avvicinati ad alcuni ambiti di conquista teorica delle istanze femministe, attraverso la prospettiva LGBTQ.
“Silvia Giambrone lavora con la performance, con una posizione molto radicale e anti-istituzionale” puntualizza Raffaella Perna. “Il duo Claire Fontaine mette al centro della sua ricerca la teoria femminista di Carla Lonzi. L’artista emiliano-togolese Silvia Rosi ragiona sulla condizione della diaspora attraverso i canoni estetici che costituiscono la sua identità di origine. Infine, Jacopo Miliani riflette sulle nuove regolamentazioni cui il nostro corpo è costretto, sulle trasformazioni in atto nelle relazioni interpersonali, e sulle dinamiche di controllo della società, che richiamano molto le ricerche al femminile degli Anni Settanta”.
COME OSSERVI IL FENOMENO DI GENERE DALLA PROSPETTIVA DELLA TUA PROFESSIONE?
“Personalmente ho vissuto un percorso positivo. Non ho mai avuto a che fare durante la mia formazione con evidenti favoreggiamenti di genere. Sono stata fortunata, perché la statistica dimostra il contrario. Se infatti la proporzione fra uomini e donne si equilibra nei primi anni universitari e quelli della ricerca, il divario aumenta con il crescere dei ruoli accademici: pertanto gli ordinari sono più frequentemente uomini. Sul mio profilo sono registrata come “ricercatore””, prosegue Perna.
Inoltre, c’è da considerare la pressione sociale. Finché la critica conviveva, la sua famiglia sentiva molto la sua precarietà e premeva perché riconsiderasse alcune scelte. Con il matrimonio, la sua precarietà è passata in sordina, pur permanendo, come se avesse raggiunto uno status di stabilità.
“Come curatrice, invece, ho subito diversi stereotipi: dal politico locale che non mi riconosceva come interlocutrice, perché giovane donna, nonostante avessi curato la mostra che promuoveva; al curatore uomo che mi ha prevaricato nel firmare e presentare una mostra co-curata” ci spiega la critica.
LE PROSPETTIVE PER IL FUTURO
“In questo momento storico, e soprattutto politico, la tematica di genere non deve essere abbandonata. L’arte e la cultura possono contribuire senza dubbio al dibattito, per mantenere attenzione costante ai temi, e contribuire alla divulgazione” sottolinea Perna.
Nel mondo dell’arte c’è una grande crescita di interesse a partire dalle riviste di settore, con la nascita di rubriche fisse, che focalizzano l’attenzione su mostre a tema. Non si tratta solo di moda del momento. Anche sul piano del mercato dell’arte, diverse artiste stanno vivendo una crescita, così come aumentano le gallerie interessate a promuovere il loro lavoro. Le grandi istituzioni possono fare la loro parte, sebbene molti musei non coinvolgano artiste nei loro progetti. Il caso della Biennale di questa edizione dimostra di aver recepito lo stimolo, contribuendo alla moltiplicazione dell’interesse. “L’importante a mio avviso è divulgare, aprirsi, educare per intercettare il più ampio pubblico possibile” dichiara Raffaella Perna: “Non dobbiamo chiuderci in circoli autoreferenziali. Non c’è un’unica strada verso il femminismo. Ricordo qualche anno fa una pesante polemica sulla pop star Beyoncè, che usò la parola Feminism per un suo progetto. Penso che queste parole non debbano stare solo in certi campi. Non si tratta di pink washing, o retorica delle “quote rosa”. Dal momento che esistono le case delle donne, i centri anti-violenza e altre organizzazioni che seriamente lavorano sulle tematiche di genere, non temo le iniziative pop che favoriscono la diffusione. Diverso invece manipolare le parole in modo tendenzioso, come fa la politica”.
Come sempre, la ricerca storica, la rivalutazione e approfondimento possono preservare l’importanza del dibattito di genere per la difesa dei diritti civili acquisiti e per il raggiungimento di nuovi diritti in una società costantemente in cambiamento.
ABSTRACT
A conversation on the aesthetic experiences of Italian women artists of the 1960s and 1970s, close to feminist demands, through the account of researcher Raffaella Perna. Her rigorous gaze allowed to connect the historical legacy, with the topicality of gender issues, emphasizing that much progress has been made, but that we need to keep the debate alive even reflected in today’s art.