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LETTURE LENTE - rubrica mensile di approfondimento
Questo articolo apre una riflessione di Letture Lente sui temi della trasformazione della Capitale alla luce degli importanti eventi e risorse in arrivo: una sfida di visione e di implementazione
© Foto di Juliano Costa su Unsplash

L’INTUIZIONE RINASCIMENTALE

Alla fine del 400, entrando in quella magnifica e per allora caotica concentrazione umana che era la Firenze medicea, rispondendo alla domanda di un suo discepolo su cosa fosse la città – quesito non banale allora, visto che la stragrande maggioranza della popolazione viveva lì dove si coltivava la terra, disseminata nelle campagne – Pico della Mirandola rispose: è un luogo dove si conta e si racconta.

Il genio rinascimentale coglieva quell’epocale passaggio in cui l’umanità, in quel cambio di secolo, almeno il segmento più privilegiato degli abitanti del pianeta, iniziava la transizione da una vita basata sulla produttività agricola ad una affidata alla circolazione del danaro e del sapere, per cui si doveva contare e raccontare.

Un’intuizione che oggi trova una stupefacente attualità nelle metropoli moderne, l’ambiente in cui già vive più della metà della popolazione terrestre, dove proprio la potenza di calcolo e l’abilità narrativa sono i due fattori costitutivi della convivenza umana.

In questo scenario mirandoliano, in cui appare evidente quale debba essere una bussola di adeguamento della città alle nuove domande socio culturali, Roma si trova tra le mani le più straordinarie opportunità per dare una propria interpretazione alla vocazione di Pico.

LA CITTÀ INCUBATORE DI RACCONTI

Un processo di nuova residenzialità, dove l’abitare, come spiega Ricchard Sennet nel suo saggio Costruire e Abitare (Feltrinelli editore), è già un modo di produrre e riprodursi. Lo vediamo concretamente realizzarsi in alcuni quartieri della capitale, come San Lorenzo, dove la contaminazione fra localizzazione e innovazione sta germinando un imprevedibile valore proprio nell’incrocio fra luoghi e flussi, fra spazi e comportamenti, come teorizza Aldo Bonomi nelle sue ricerche sulle dinamiche delle nuove comunità urbane. L’insediamento in vecchi edifici industriali, come l’ex pastificio Cerere, di una moltitudine di artigiani ed artisti che combinando spazio e promiscuità, in un ambiente iperconnesso, genera ulteriori attività ibride, al confine fra abilità e talento, rendendo il territorio un incubatore di racconti, appunto, e non più solo, un desolato deposito residenziale.

Si fotografa in questo processo una delle tante interpretazioni della smaterializzazione produttiva, dove si dosano, in proporzioni sempre specifiche e indotte dal contesto geografico e sociale, quella che Helga Nowotny nel suo saggio Le macchine di Dio (Luiss editore) definisce “traiettoria co evolutiva fra uomini e macchine“. La co evoluzione fra questi due fattori, uomini e macchine, è ormai base e riferimento obbligato in ogni gestione di comunità urbane: si fa città oggi proprio orchestrando, con il livello di massima consapevolezza e autonomia possibili, la convergenza fra umani e macchine.

Roma deve trovare una sua risposta a questa domanda: quale forma ed equilibrio deve contraddistinguere questa convivenza in città? Quale struttura sociale ne è determinata, con quale gerarchia e trasparenza? Insomma lungo questa traiettoria chi guida gli uomini o le macchine, per meglio dire, i proprietari delle macchine?

Sono i nodi che rendono la cosiddetta smart city, ossia il passaggio da un ambito pubblico ad uno privato, quali le piattaforme digitali, di servizi sensibili e dei relativi dati, una trasformazione rigida e autoritaria, orientata tutta da un determinismo tecnologico, conseguente di scelte arbitrarie e incomplete, o ancora di più, di non scelte, da parte della pubblica amministrazione.

La smart city, che oggi ormai diventa brain-city, con la centralità dell’intelligenza artificiale, è un vero salto copernicano, in cui il metodo con cui agire, per molti versi, prevale largamente sul contenuto da assumere.

Infatti nella transizione cibernetica, potremmo dire, il metodo, ossia il linguaggio e il modello relazionale determina la qualità del processo, costituendo così il vero tessuto connettivo di una nuova idea di città.

Abbordare questo cambiamento implica da una parte decisione e visione nell’individuare tendenze e soluzioni che si propongono ormai in termini di brusco passaggio e non di graduale evoluzione, dall’altro rende indispensabile investire risorse cospicue per intervenire drasticamente nel ridisegno della struttura urbana.

UNA CAPITALE SENZA PRIMATO

Forse solo Italo Calvino, il meno romano dei grandi letterati italiani del 900, di cui cade il centenario della nascita, ha potuto darci spunti profetici per interpretare l’imbarazzo di una capitale senza primato, come Roma si è sentita in questi ultimi lunghi decenni, dopo i fulgori degli anni 60.

In quello straordinario e ammaliante saggio sociologico del futuro che sono “Le città invisibili “, lo scrittore fissa un destino per le metropoli, riferendosi all’immaginaria città a cui si riferiva nel suo libro “È inutile stabilire se Zenobia sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici. Non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati”.

Una definizione straordinariamente calzante per Roma schiacciata fra sogno o incubo, in cui si da forma ai desideri o li si cancella.

Un dualismo che ha attraversato tutta la vicenda più recente della nostra capitale, in cui proprio il sogno e gli incubi, shakespearianamente sono stati la materia con cui si è edificata la struttura urbana.

Immaginario e cronaca, cinema e borgate, politica e marginalità.

Paradossalmente l’essere stata, ed ora, quasi a sua insaputa, tornare ad essere, uno dei cantieri principali della narrazione audiovisiva globale, con le grandi stagioni della fabbrica dell’immaginario che l’urbe ha vissuto, rappresentando quel sistema Cinecittà di cui si parlava nel mondo, non ha risolto il gap identitario che si trascina dietro.

Così come sono stati vissuti, alla fine con rassegnazione, come oppressione più che come invidiabili risorse, la convivenza nei suoi confini di maestosi sistemi narrativi, come sono tutt’ora il patrimonio archeologico e il soglio di Pietro, che per la loro indubbia massa e ingombro, inevitabilmente, in larga parte, rappresentano, ma anche annebbiano, la proiezione nel mondo di Roma come comunità civile.

Come New York può non essere gli Usa, e Parigi sicuramente non è la Francia e Londra è sempre stata separata dall’Inghilterra, la città capitolina ancora non riesce a parlare senza il contesto nazionale, nel bene e nel male.

Entro il 2030 oltre al 60 per cento, 5 miliardi di persone vivranno in aree urbane densamente popolate. Città e umanità tendono ad essere sinonimi.

Una quantità che diventa qualità nel momento che pone, attraverso le sue dimensioni, il tema di come declinare per una ingente massa di individui non solo servizi e vivibilità fino ad ora pensati ed organizzati per comunità più limitate e selezionate, ma anche assicurare, tale è ormai la pretesa di massa a cui rispondere, canali di partecipazione e di personalizzazione delle relazioni.

RIPARTIRE DALLA CONNESSIVITÀ DELLE DIVERSITÀ

Personalizzazione nel senso non solo di individualizzazione, secondo la visione classica mutuata da Alex de Tocqueville che considera la separazione dalla massa di singoli cittadini che si collegano poi fra di loro in virtù di micro patti sociali, i così detti joineers, come la caratteristica della società liberale. Invece nel XXI° secolo personalizzazione comporta il riconoscimento delle diversità. Si è città se si abilitano le relazioni fra diversi, dando alla governance innanzitutto la rappresentatività di questi modi diversificati, ed a volte anche antagonisti, di essere cittadini.

Una città, catechizzava già Aristotele nella Politica “è composta da tipi diversi di uomini; le persone simili non possono dar vita ad una città”.

Questo snodo che collega l’efficienza dei servizi all’intensità della partecipazione, e dell’inclusione, abbiamo visto, è il tratto caratteristico delle città al tempo della riproducibilità tecnica delle connessioni sociali.

Una diversità che è meticciato etnico ed assieme differenza di identità, di culture, di destini, di bisogni.

Si costruisce urbanizzazione mediante l’allestimento di linee di connessione e comunicazione, come unico ponte fra ogni singola componente la comunità urbana e fra questi insiemi, diciamo i romani in senso lato, e il resto del mondo.

Il destino e la prosperità dei singoli cittadini e dell’insieme della vita cittadina sono strettamente legati oggi a questo indice di cosiddetta connessività, intendendo per tale, la ricchezza e la reciprocità delle opzioni di cui la connettività è solo la componente tecnica.

La connessività, infatti, è l’indice di socializzazione della connettività digitale, ossia l’indotto sulle relazioni sociali della capacità di un territorio o di una comunità di allestire un’infrastruttura digitale che colleghi, punto a punto, gli individui. In questa prospettiva possiamo considerare la connessività come il welfare della tecnica di collegamento, mediante diverse modalità, dal mobile al wifi, che determina la nuova forma del diritto di cittadinanza.

In questa logica il patrimonio artistico storico, le capacità linguistiche e creative, i talenti e le competenze, le tradizioni artigiane, diventano pretesti e occasioni per dare forma e consistenza a questa funzione sociale della connessività, che diventa vera e propria cittadinanza quando si realizza orizzontalmente, fra i singoli cittadini, e verticalmente fra governanti e governanti.

Si è oggi abilitati a ricevere un mandato consensuale dai suoi amministrati, quando, e se, si stabilisce come proprio principio di legittimità la capacità di promuovere e sostenere lo sviluppo intendendo per sviluppo alti tassi di crescita e il cambiamento strutturale del sistema economico sia rispetto al mercato interno che a quello internazionale” scrive Chalmers Johnson nel suo testo “The Rise and the Development State”.

Per tanto la partecipazione non è solo sinonimo di libertà, come cantava Giorgio Gaber, ma anche indice di efficienza e stabilità dei livelli istituzionali di una città. Forse se avessimo letto con più attenzione questi indicatori di relazione fra le ambizioni dei cittadini e le risposte degli amministratori ci saremmo sorpresi meno dinanzi ai rovesciamenti repentini di consenso per le diverse proposte politiche.

Il quadro che abbiamo dinanzi non ci rassicura da questo punto di vista.

LA SFIDA DEI GRANDI EVENTI: TRA EDILIZIA ED IL PIANO REGOLATORE DELLE INTELLIGENZE

Analizzando quanto si è al momento appreso della trama dei diversi piani operativi indotti dai progetti che abbiamo citato, in particolare la convergenza fra il prossimo ormai Giubileo, previsto per il 2025, e il progetto Roma Caput Mundi, con lo sfondo dell’attesa per l’attribuzione dell’expo del 2030, si intravvede una netta opzione a favore della materialità delle opere pubbliche rispetto ad un ridisegno delle forme relazionali e creative nella città.

Ogni singola iniziativa prevista nella fitta griglia dei progetti, più di 300 solo per Roma Caput Mundi a cui si aggiungono il circa centinaio per il Giubileo, naturalmente coglie una lacuna da colmare e perfeziona un tratto di città da adeguare.

Siamo nell’ordine di una spesa che complessivamente potrebbe arrivare, compreso l’Expo, ad una cifra, fra investimenti diretti e indiretti, attivati dai tre volani operativi superiore largamente ai 65 miliardi di euro. I capitoli di spesa hanno tutti titoli stimolanti ma alla fine convergono in una gigantesca attività di manutenzione straordinaria. L’ennesimo sotto passo, la correzione di vie di scorrimento, ancora un rinnovamento del parco trasporti, con la sostituzione di vetture e linee tramviare. Si realizzerà un insediamento a Tor Vergata che dovrebbe poi essere destinato all’accoglienza di studenti.

Ma alla fine, ammesso che il mosaico dei cantieri sarà completato, avremo un buon aggiornamento del sistema urbano, con qualche ritocco – non sarà più di questo – ad una rete di mobilità che rimarrà strutturalmente inadeguata. Non sarà questo maquillage di cemento e asfalto che renderà Roma più capace di contare e raccontare.

Manca ad esempio un’idea di evoluzione digitale del sistema urbano. Siamo nel pieno di una nuova ondata tecnologica, che vedrà attività centrali per essere città, dalla sanità alla pubblica amministrazione, dall’amministrazione della giustizia, alla formazione, che si infrangerà su Roma senza trovare una canalizzazione o una logica pubblica.

Un limite che non tocca solo la capacità di intervento della città sui grandi temi della digitalizzazione delle relazioni sociali, ma mostra un buco nero nella stessa prefigurazione dello sviluppo metropolitano. Come abbiamo detto, la ritrovata funzione produttiva nel ciclo cinematografico, ancora una volta non viene sostenuta con infrastrutture ma anche riproduzione di saperi e abilità per completare questa mission anche negli attigui campi dello streaming televisivo. La smobilitazione di interi quartieri generali di grandi imprese e centri di servizi dall’area urbana, non segnala un’insufficienza nel sostenere sia il brand ma anche la funzionalità del sistema connettivo della città con il resto del mondo. Infine si pone oggi un problema più ampio che riguarda l’automatizzazione delle discrezionalità cognitive. I nuovi formati di intelligenza artificiale ridisegneranno i confini di mestieri e attività che rappresentano il core business di Roma, così come negli anni passati le grandi piattaforme della pianificazione turistica, da AirBnB a Booking, hanno liberamente ridislocato i valori catastali e immobiliari della città, commercializzando senza limiti o regole, spezzoni della residenzialità cittadina.

Dopo quella rivoluzione passiva, che ha trasformato interi quartieri in massicce rendite di posizioni incontrollate, avremo un’interferenza ancora più pervasiva nella riallocazione delle attività immateriali.

L’esempio che ci viene da altre realtà metropolitana, da Barcellona a Copenaghen, è quello di un vero piano regolatore delle intelligenze e delle memorie, che renda direttamente il sistema tecnologico uno spazio pubblico. Si tratta di ripetere l’esperienza virtuosa che vide, almeno in alcune aree del paese, gli enti locali giocare positivamente la partita di civilizzazione della speculazione immobiliare con i piani regolatori urbani e le conferenze dei servizi.

Pensiamo ai comparti universitari – che a Roma sono un popolo – agli alveari amministrativi, ai villaggi dell’informazione e dei sistemi audiovisivi, tutti soggetti che devono diventare componenti di un tavolo di programmazione della dislocazione di risorse e applicazioni intelligenti.

Il sindaco di Roma non può ancora oggi non sapere se i suoi ospedali o le sue scuole possono affacciarsi sul metaverso del mondo, partecipando ai processi di innovazione immateriale di ricerca e assistenza in virtù dei nuovi codici di connettività a larga banda, come il 5G. Così come non può non sapere se il suo sistema museale, una vera potenza sulla scena mondiale, possa essere motore e fabbrica di una trasformazione linguistica che combini reale e virtuale, modulando le presenze e le partecipazioni virtuali secondo ritmi e necessità della comunità.

Se un secolo fa circa Fernand Braudel diceva che una città era innanzitutto le proprie strade, oggi dobbiamo riconoscere che un sistema urbano, a livello civile e materiale si propone e si riconosce a partire dal livello di relazione sociale che ogni individuo può progettare, a partire dalla dotazione di connettività e di giacimenti di memorie e intelligenze di supporto. Da questa voce capiremo se le occasioni sono state debitamente sfruttate o meno.

ABSTRACT

The life and governance of a city are converging into a single relational system where flows meet, such as circular communication between citizens, and places, such as the territory that hosts citizens. In this logic that Pico della Mirandola already summarized with the formula “the city is where one counts and tells one’s story”, the case of Rome arises, a city of memory and dreams, today invested by a mix of opportunities and resources induced by the convergence of major projects, such as the 2025 Jubilee, the Roma Caput Mundi plan and the competition to win the organization of Expo 2030. In view of these events, national and local institutions have implemented a plurality of projects, largely related to the ordinary or extraordinary maintenance of roads and residential works. There is no idea of linking the city to the century of artificial intelligence and above all there is absolutely no participatory procedure that builds the project through the use by citizens of communication channels between governors and governed. A black hole that leaves the capital of Italy without a capacity to attract the new classes of knowledge. It therefore becomes urgent to activate solutions such as a regulatory plan for intelligence and connectivity, which makes Rome a negotiating subject in the engineering of technological powers in social life.

 

 

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Michele Mezza

Michele Mezza

Michele Mezza, giornalista, saggista e docente universitario. Una lunga carriera in Rai, prima ck e inviato all’estero (Urss e Cina) poi come responsabile di sviluppo di progetti tecnologici. Fra l’altro ha ideato e realizzato il progetto del primo canale All News della Rai, Rainews24. Ora insegna epidemiologia sociale presso l’Università Federico II di Napoli.Collabora con Testate e Blog fra cui Huffington Post. Dirige la comunità digitale Mediasenzameditori.org. Ha scritto vari testi fra cui, sempre per l’editore Donzelli, Avevamo la Luna (2013), Algoritmi di Libertà ( 2016), Il contagio dell’Algoritmo ( 2020), Caccia al Virus, con Andrea Crisanti, nel 2021; ed infine Net War ( 2022).

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