
Nel 2008 la Biblioteca di Delft, una città di taglia media olandese, fu dichiarata la più moderna e attraente del mondo. La dirigeva un singolare profilo di intellettuale dal nome che sembra uno scioglilingua nell’oscuro – per noi – idioma di quel paese: Oppo van Nispen tot Sevenaer. Si tratta di uno straordinario ingegno tecnologico che oggi è il responsabile del Netherland Institute for Sound and Vision a Hilversum. Un museo della comunicazione che è considerato in Olanda un sistema di informazione sul futuro dei media.
Un caso limite, certo. Ma sicuramente uno di quei segnali deboli, di cui parlava Marshal Mc Luhan, per anticipare una tendenza.
Il tema che oggi si sta imponendo con forza riguarda appunto una diversa missione delle istituzioni culturali, non più solo, e nemmeno prevalentemente, come luoghi di narrazione del passato, ma attivi impresari del futuro. Un salto concettuale che sintonizza il patrimonio artistico e storico di un territorio con la sua evoluzione socio-tecnologica.
Non è certo un caso che la corsa di Google verso il monopolio del mercato dei motori di ricerca prenda velocità, nel 2004, proprio con il progetto che allora era banalmente denominato Google Print e che poi è diventato Google Books. L’obiettivo era la digitalizzazione dell’intero patrimonio editoriale del pianeta, che la società di Larry Page e Sergei Brin ha perseguito con tenace e implacabile impegno.
Non era difficile neanche allora comprendere quale valore potesse avere il patrimonio culturale depositato in librerie e musei per un sistema che ambiva a catalogare il sapere globale e renderlo fruibile ad ogni singolo utente.
La partita si è fatta ancora più complicata, ma anche più pregiata dal punto di vista imprenditoriale e politico, con la svolta dell’intelligenza artificiale.
La delicatissima ed economicamente gravosa fase dell’addestramento dei nuovi dispositivi – dalle diverse versioni di Chat GPT a Bard e gemini di Google alle nuove soluzioni che Amazon e Apple stanno ingegnerizzando sulle loro piattaforme – diventerebbe molto più agevole se i serbatoi del sapere potessero essere direttamente connessi ai meccanismi di ricerca e catalogazione delle intelligenze artificiali. Mi riferisco a quel processo di ingestione nella memoria dei dispositivi intelligente di miliardi e miliardi di assetti concettuali che sono la base per le loro rielaborazioni successive al fine di rispondere esaurientemente ai propt degli utenti.
Si apre così una nuova stagione per la tracciabilità della cultura, ossia per quella atavica attività di raccolta e conservazione dei reperti e documenti che ha sempre caratterizzato ogni fase dell’evoluzione umana. Fino ad oggi l’archeologia o la storia serviva per comprendere il passato, condividendone le opere più affabulanti. Ora invece quei materiali, il modo con cui sono archiviati ed esposti, il racconto che se ne trae diventa una pista di ricerca ed elaborazione, in molti casi un compimento e svelamento di enigmi e incognite che ancora gravano su molti aspetti della nostra storia passata, grazie alla capacità di processamento, di elaborazione di queste informazioni con il gigantesco flusso contemporaneo che rende decifrabile quello che avevamo alle spalle e ancora non era tale, e predittivo quanto invece abbiamo dinanzi.
Una vera rivoluzione copernicana che riclassifica sia la struttura che l’identità di quegli spazi che potremmo definire in termini conservativi musei ovvero le grandi piattaforme fisiche di diffusione della cultura.
LE DUE MISSIONI PER UN MUSEO INTESO COME FABBRICA E NON COME VETRINA
Insieme a questa nuova funzione, proprio l’esperienza olandese con cui abbiamo aperto questo ragionamento ci fa intravvedere un’altra straordinaria missione che sta arricchendo l’idea di luogo dove si fa cultura. La Biblioteca di Delft è stata apprezzata a livello internazionale perché ha mutato il paradigma stesso del modo di gestire i libri. “Non abbiamo pensato – spiega il suo creativo autore – a come conservare meglio i testi raccolti, ma come servire meglio le persone, cioè gli utenti che direttamente, fisicamente, cercavano suggestioni nelle nostre sale o che le rintracciavano, indirettamente, mediante visite virtuali”. E infatti quello spazio è diventato una vera fabbrica di proposte audiovisive e multimediali in cui ogni singolo avventore è in grado di combinare il suo mix di conoscenze e anche di svago ibridando i linguaggi più diversi: dalla stampa, al video, ai suoni, agli ologrammi. Per questo un sistema che si propone di essere fruibile a un vasto pubblico, quale sono la maggioranza dei nostri principali spazi della cultura, inevitabilmente si trova ad essere committente e co-progettista di soluzioni tecnologiche molto avanzate. La cultura, meglio ancora i format di impaginazione di ogni genere di contenuto, storico o contemporaneo, è oggi il back stage di un sistema di interfacciamento che, seguendo le tendenze tecnologiche, si trova sempre più a personalizzare l’offerta, elaborando opportunità e risorse.
Le due missioni – l’addestramento dei sistemi automatici e l’indotto tecnologico – che emergono come innovativi effetti dell’adeguamento tecnologico di quella che Adorno chiamò l’industria culturale, ci mostrano concretamente come oggi gli spazi della trasmissione e conservazione culturale (siano musei o auditorium, mostre o palcoscenici) diventino centrali nella realizzazione dei diritti di cittadinanza, assolvendo a funzioni di assegnazione di identità collettive e individuali. In questo rintracciamo il senso politico di queste istituzioni sul territorio. Non è un caso che tutte le nostre principali metropoli – da Napoli a Torino a Milano alla stessa capitale – sono fortemente impegnate nella ratifica dei vertici dei propri apparati culturali. Possiamo dire che oggi il direttore di un museo o di uno science center o di uno spazio musicale, sia una delle figure più emblematiche dell’identità di una città e soprattutto del suo modo di parlare al mondo.
Del resto non dovrebbe sorprenderci questo dato dopo almeno 40 anni in cui l’economia si è ormai strutturata sull’abilità di scambiare segni e sogni, più che di soddisfare bisogni. Siamo in quella nuova società “informazionale” di cui ci parlava profeticamente il sociologo Manuel Castells già all’inizio del nuovo millennio. Una società che produce valore mediante informazione e genera informazione mediante informazione. Un circuito che non poteva non trasformare geneticamente l’articolazione dei valori e degli interessi che oggi dominano nella città.
LE METROPOLI COME PERIFERIA DEL MUSEO
Il MANN a Napoli, o il Museo Egizio a Torino, o ancora la Triennale di Milano e l’Auditorium di Roma, o ancora teatri di festival, sono veri e propri canali mediatici che comunicano sia all’interno della città, creando capitale umano con le forme di socialità che inducono, sia con il resto del mondo, mediante le diverse forme di fruizione a distanza. Questa capacità indubbiamente si intreccia con la più generale azione di governo della città, che oggi è basata, in maniera diciamo prevalente se non proprio esclusiva, sull’elaborazione di bisogni, ambizioni e pretese di partecipazione alle modalità narrative della cultura, ossia ai formati di trasmissione e non solo di conservazione dei documenti e delle testimonianze culturali della comunità. Il filo comune a tutte le esperienze cittadine che ho citato prima è infatti proprio la promozione di un inedito valore d’uso del flusso di contenuti culturali sia nella circolarità territoriale che nella virtualità globale.
Proprio a Napoli, forse la città italiana più interna all’economia della narrazione, in cui il fordismo non ha lasciato tracce, il cantiere della riorganizzazione del museo archeologico è un’opportunità per tutta la comunità, in quando genera valore e opportunità diffuse.
Un museo quale quello diretto da Paolo Giulierini è infatti un motore di linguaggi e di continue opzioni per rivisitare il patrimonio della città e le sue strategie future. L’integrazione fra i magazzini ancora nascosti nelle cantine del museo con i circuiti di Pompei e Ercolano, arrivando ad integrare i processi di analisi e lettura dei reperti con i giacimenti più affini in Francia e Inghilterra rende Napoli, le sue università, il suo sistema turistico, le sue classi professionali un laboratorio di un possibile sviluppo immateriale. È evidente che una tale rilevanza difficilmente possa rimanere al riparo da dialettiche politiche o istituzionali, come la vicenda del San Carlo, un altro medium della città, ci mostra con grande evidenza.
Si pone a questo punto il nodo di uno statuto di autonomia istituzionale degli apparati culturali. Diciamo un nuovo sistema di garanzie pubbliche e di partecipazione sociale che possa tutelare la professionalità ma anche la creatività di queste figure che, per le modalità tecniche del loro lavoro e anche un certo prestigio che devono acquisire nelle relazioni internazionali, non debbano essere banalmente assimilate alla semplice lottizzazione maggioritaria.
Non si tratta qui di entrare in quel patetico gioco politico che vede la minoranza del momento lamentarsi dell’invadenza della maggioranza, pur avendo generalmente esercitato la stessa pretesa quando i rapporti erano inversi. Si tratta oggi di cogliere proprio una nuova genetica dei poteri, dove l’aura istituzionale è ormai largamente indotta dalla tipologia dei valori aggiunti procurati al territorio proprio dall’allestimento di sistemi e apparati culturali permanenti o occasionali. Siamo ad una nuova fase della relazione fra immateriale e materiale, in cui l’intraprendenza di ogni individuo, ormai abilitato all’uso di risorse tecnologiche che aumentano la sua capacità di lettura ed elaborazione di linguaggi e contenuti si riflette in una maggiore e sofistica struttura che deve assumere l’intelaiatura culturale nel suo insieme.
UNA RISERVA PUBBLICA SULLA GOVERNANCE DEI SISTEMI CULTURALI
Penso, a tal fine, ad un modello che distanzi le nomine dal rinnovo delle diverse istanze istituzionali, assicurando a queste capability sia una maggiore continuità di lavoro, sia un diverso meccanismo di legittimazione, non esclusivamente dipendente dal consenso politico. In modo da poter sganciare dalle contingenze strettamente politiche le sperimentazioni ed elaborazioni di complesse strategie comunicative. Al tempo stesso credo che vadano coinvolte aree sociali e professionali più estese nella designazione di chi deve poi influenzare la vita culturale ma anche economica di una comunità. Il sistema delle multiutility, che nei decenni precedenti ha reso le città soggetti economici sul terreno dell’energia o dell’acqua o dei trasporti, potrebbe essere adeguato alle nuove necessità con fondazioni metropolitane che gestiscono il patrimonio culturale del territorio anche in vista di un’ottimizzazione sui mercati appunto delle forme intelligenti.
Arriviamo così alla componente tecnologica che sta diventando partner indissolubile da qualsiasi strategia narrativa e culturale. L’autonomia e la sovranità di un paese sta proprio nella capacità di selezionare modelli e linguaggi di elaborazione della realtà che oggi sono fortemente connessi con il calcolo. Ma proprio quest’ibridazione fra cultura e informatica deve dosare diversamente il predominio inesorabile del sistema automatico. Ibridare l’ineluttabilità matematica con un corredo di etica e di fantasia più accentuato potrebbe essere una delle responsabilità del sistema italiano nel far parlare il patrimonio storico. Come diceva infatti Alfred Hictchok “c’è sempre qualcosa di più importante della logica: l’immaginazione”.
ABSTRACT
In main Italian cities, the figures of museum directors are becoming true opinion leaders who help determine the common sense of the metropolis. Today a system of collecting and sharing artistic and archaeological heritages is first and foremost an engine that elaborates and experiments with solutions and languages in the transition to the virtual and, on this drive, becomes a channel of communication with the global communities that gather around the most creative contaminations that are activated. It therefore becomes essential to give shape and consistency to a statute of autonomy and identity to these apparatuses with respect to the convulsions of territorial political dynamics.