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LETTURE LENTE - rubrica mensile di approfondimento
Riflessioni per la definizione di un registro di settore “Made in Italy”
© Foto di Jr Korpa su Unsplash

Il tema del riconoscimento e della misura dei settori culturali e creativi (SCC) ha radici ormai relativamente lontane. A seguire dai primi lavori compiuti nel mondo anglosassone sin dagli anni ’80, moltissimi paesi in Europa e nel mondo si sono dotati di rapporti di mappatura dei SCC, principalmente improntati a coglierne la portata economica.

Nonostante i numerosi limiti metodologici che queste mappature comportano, occorre ammettere che la corsa al dato ha generalmente prevalso sulla necessità di affrontare questi limiti o quantomeno di rendere chiaro e trasparente cosa riusciamo realmente a misurare e cosa no.

Questo è forse uno dei motivi per cui oggi, in occasione della possibile adozione di una legge sulle imprese culturali e creative nonché del disegno di legge (ddl) sul Made in Italy che contiene diverse disposizioni per le stesse, ci troviamo ad affrontare un dibattito senz’altro importante (i.e. cosa è impresa culturale e creativa?) ma che avremmo dovuto risolvere già molti anni fa, trovando un vocabolario comune su cui poterci confrontare e dialogare.

Perché definire l’impresa culturale e creativa è così complesso?

Uno dei problemi principali riguarda la mancata corrispondenza tra l’universo di organizzazioni (imprese e non) che svolgono, in tutto o in parte, attività culturali e ciò che è effettivamente rilevabile da un punto di vista statistico. Il problema è di duplice natura. Da un lato, la classificazione statistica: i criticatissimi ATECO, infatti, non essendo adeguati alla realtà del mondo culturale, finiscono per includere le organizzazioni culturali e creative in “calderoni” molto più grandi, ovvero all’interno di codici che includono attori dei SCC tra gli altri. Dall’altro, la copertura delle fonti disponibili. Idealmente, avremmo bisogno di una base dati che copra al contempo tutte le organizzazioni che svolgono o meno attività di impresa in ambito culturale. Questa frase – apparentemente di una semplicità disarmante – si scontra con una realtà estremamente variegata e in continua evoluzione che include, per esempio, imprese (tra cui ritroviamo adesso anche le imprese sociali), organizzazioni che non si qualificano come impresa ma che possono in parte svolgere attività di impresa (come le associazioni) o ancora organizzazioni non qualificabili come imprese ma che offrono servizi di tipo culturale (come alcuni club di lettura), a cui si aggiungono numerosi liberi professionisti. Molte organizzazioni che svolgono attività culturale, come imprese sociali o associazioni, rientrano inoltre nel cosiddetto Terzo Settore.

Il Registro delle imprese, ad oggi la fonte dati che più si avvicina a questa “banca dati ideale” per i SCC, presenta il grosso limite di includere prevalentemente imprese for profit. L’obbligo di registrazione è infatti previsto solo per certe tipologie di impresa. Per il mondo della cultura, questo è un problema tutt’altro che indifferente, perché si tratta di un mondo che è fatto in gran parte da attori che vivono all’intersezione di forme giuridiche e modelli di business ibridi. L’istituzione del REA (Repertorio Economico Amministrativo) – che prevede l’iscrizione obbligatoria di associazioni o altri enti non societari che esercitano, oltre alla propria attività istituzionale, anche, in via sussidiaria, una attività economica – ma soprattutto di una sezione speciale per le imprese culturali e creative nel Registro delle imprese prevista dall’art. 19 del ddl sul Made in Italy è senz’altro un importante passo avanti1. Tuttavia, in assenza di chiari requisiti (cosa costituisce attività culturale e creativa?) nonché di soggetti che ne verifichino la sussistenza, difficilmente tali novità riusciranno a risolvere i limiti intrinseci agli ATECO. Rischiano piuttosto di replicarli.

Cosa ci suggeriscono le ricerche esistenti in materia? In primis, la mancata consapevolezza di molte imprese dei SCC dell’importanza di una registrazione accurata nel Registro delle imprese (i.e. che passa anche per la scelta del più corretto codice ATECO), anche ove non obbligatoria, per una corretta rilevazione dei SCC a supporto delle politiche di settore. Difficilmente, però, la registrazione verrà effettuata, vista la piccola taglia delle imprese di questo settore, che di pratiche amministrativo-burocratiche ne hanno fin sopra i capelli. Tuttavia, la definizione di incentivi alla registrazione – piuttosto che di nuovi obblighi – potrebbe rappresentare, come ci insegna l’economia comportamentale, quella spinta gentile necessaria all’introduzione di un cambiamento. Non si tratta semplicemente di vincolare l’erogazione di fondi all’iscrizione in registri dedicati, ma di provare a creare una coscienza di settore e di una cultura del dato, quale base conoscitiva imprescindibile allo sviluppo di politiche rilevanti ed efficaci. L’emersione dal sommerso e l’accesso ad agevolazioni e semplificazioni, per esempio per il riuso di spazi pubblici, potrebbero rappresentare ulteriori, e ben pragmatici, incentivi. Secondo, e come già suggerito in uno studio europeo del 2015, lo studio degli ATECO attribuiti alle attività secondarie delle imprese può potenzialmente restituirci un universo molto più complesso e allo stesso tempo utile alla comprensione di un mondo che non solo è in continua evoluzione ma che diviene sempre più oggetto di interesse per imprese la cui missione principale non è di natura culturale. Capire la portata di questo fenomeno permetterebbe di avere un quadro più esaustivo del valore economico ma anche politico della cultura, soprattutto in una prospettiva temporale. Da un punto di vista metodologico, lo studio degli ATECO ‘secondari’ nonché delle associazioni iscritte al REA che svolgono attività economiche in ambito culturale potrebbero fornire input molto concreti e utili alla definizione dei requisiti di cui sopra. Terzo, ma non per importanza, sarebbe importante fare tesoro delle riflessioni avviate ormai in molti Paesi per la definizione di un registro degli artisti e dei/lle professionist* della cultura, rispetto alle quali l’ultimo studio europeo sulla loro condizione lavorativa rappresenta un’ottima “guida alla navigazione” delle più recenti esperienze. Se artisti e imprese non sono ovviamente la stessa cosa, la difficoltà di definire il perimetro delle attività culturali e creative accomuna le due tipologie di registro.

L’Italia ha l’opportunità di dotarsi di una legge unica e potenzialmente innovativa per i SCC, che faccia del Made in Italy un riferimento anche metodologico, rispetto all’annosa questione della perimetrazione dei SCC. Ma senza una riflessione accurata e nutrita dal lavoro di questi ultimi 30 anni, non incorriamo forse nel rischio di creare semplicemente uno specchietto per le allodole? Che differenza c’è, per esempio, tra i diversi progetti di legge sulle ICC e le disposizioni in materia del ddl sul Made in Italy? Come fare chiarezza su cosa è o non è impresa culturale e creativa? Quali i requisiti da prendere in considerazione, a complemento o in alternativa a quanto già proposto dai progetti di legge? È il registro uno strumento valido al superamento dei limiti intrinseci agli ATECO? O ci sono altre strade da percorrere che non abbiamo ancora considerato? Delle domande che ci poniamo e vi poniamo, al fine di approfondire la riflessione e stimolare dibattito pubblico, quale potente strumento di co-creazione delle politiche.

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] Art 19, comma 6: Le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura istituiscono un’apposita sezione nel registro delle imprese di cui all’articolo 2188 del codice civile, in cui sono iscritte le imprese culturali e creative e trasmettono annualmente al Ministero della cultura l’elenco delle stesse.

ABSTRACT

The topic of recognition and measurement of the cultural and creative sectors (CCS) has relatively distant roots. Following the first works in the Anglo-Saxon world since the 1980s, many countries in Europe and around the world have equipped themselves with CCS mapping reports, mainly aimed at capturing their economic impact. Despite the numerous methodological limitations that these mappings entail, it must be admitted that the race for data has generally prevailed over the need to address these limitations. This is perhaps one of the reasons why today, on the occasion of the possible adoption of a law on cultural and creative businesses as well as a law on Made in Italy which contains various provisions for the CCS, we find ourselves facing a debate (i.e., what is a cultural and creative enterprise?) which we should have resolved many years ago. Why is defining the cultural and creative enterprise so complex? An answer to this question and an operational proposal for the creation of a national CCS register, which overcomes the limits of the ISCO codes, is proposed in this article.

 

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Valentina Montalto

Valentina Montalto

Forte di un’esperienza professionale decennale in ambienti internazionali, Valentina Montalto si è occupata di politiche, statistiche e indicatori per i settori culturali e creativi (SCC), a livello europeo e urbano. Dopo sette anni di lavoro come project manager e consulente presso KEA European Affairs, società leader nei SCC, con sede a Bruxelles, è attualmente policy analyst presso il Joint Research Centre della Commissione Europea, in qualità di ricercatore principale e coordinatore del Cultural and Creative Cities Monitor - strumento di monitoraggio e valutazione dell’ecosistema culturale e creative di 190 città europee. Valentina interviene regolarmente in conferenze e workshop in tutta Europa. Su YouTube il suo TEDx talk Quanto conta la cultura nelle nostre città? Valentina ha conseguito un Ph.D. in Urban Studies all’Università Paris 1 - Sorbonne. Parla italiano, inglese, francese e spagnolo.

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