
Ma cos’è questo sano buon senso, se non l’ignavia che impedisce all’intelletto di uscire dall’orbita tanto angusta e circoscritta del nostro mondo di immagini e di ammettere la possibilità di presupposti diversi?
Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia, 1908
Da tante parti, in questi anni, ci si chiede se sia possibile, e che cosa significhi, pensare di decolonizzare l’educazione: un’educazione che, nel mondo occidentale, assume il modello greco-romano come acme indiscusso da cui ogni forma artistica e dialettica viene fatta discendere, rivitalizzato in vitro anche a distanza di secoli, rianimato con accanimento ogni volta che il modello imperiale viene evocato, anche nella sua rappresentazione visiva. L’università di Monticello (Virginia) fondata da Thomas Jefferson, presidente-architetto, ne è un’epitome destinata a un enorme successo; e lo stesso si può dire della tipologia del tempio mutuata da molti edifici museali, secondo un procedimento di copia-incolla così incurante dei contenuti e delle temporalità da apparire paradossale. Per cogliere questo paradosso, tuttavia, dobbiamo fare un passo di lato: il paradigma, infatti, ci appare “naturale”, essendo la grammatica con cui le istituzioni ci hanno cresciuti/e e certificati/e, la lente con cui abbiamo guardato alla storia e l’abbiamo a nostra volta, spesso, raccontata.
Per analizzare che cosa può significare “decolonizzare l’educazione” occorre guardare principalmente a due aspetti. Il primo, più concreto, attiene ai programmi dei corsi di storia e materie umanistiche, ai curricula che gli studenti/esse possono scegliere, ai syllabi che i/le docenti propongono loro [1]: non è difficile constatare quanto il modello “a picchi e valli” (Atene-Roma e le loro ricorrenti epifanie, con apici nel Rinascimento e nel Neoclassicismo, contrapposti, nonostante la Scuola di Vienna e il lavoro imponente della storiografia contemporanea, a momenti di “decadenza”). Il secondo aspetto, più sfuggente e dunque subdolo, riguarda le posture intellettuali ed etiche di chi amministra la conoscenza e la trasmette: chi è in posizione di potere, e dunque di scelta, entro musei, scuole, università, centri di ricerca, archivi, accademie d’arte, case editrici, e così via. Al di là dei contenuti trasmessi dalle istituzioni tradizionalmente deputate alla ricerca e all’insegnamento, con cultura si intende ovviamente anche l’insieme delle pratiche e dei saperi che caratterizzano il funzionamento di una società e che riguardando le politiche, i meccanismi di reclutamento, la formulazione di bandi e l’erogazione di finanziamenti, l’organizzazione del lavoro, e tanto altro ancora.
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Una fondamentale cornice teorica di riferimento viene proposta da Ariella Aïcha Azoulay, docente alla Brown University, nel suo volume Potential History. Unlearning Imperialism [2]. La studiosa spiega il concetto di disapprendimento come forma di cura radicale di un mondo malato. Disfare il set di saperi che la storia ci ha consegnato non significa ripudiarlo in toto, ma far emergere le trame che l’hanno innervato e rifiutare di aderire alle classificazioni che ne costituiscono l’ossatura portante:
Il disapprendimento dell’archivio in quanto spazio è fondamentale per unirsi a chi si è opposto ad esso e ha sostenuto che non tutto deve essere archiviabile, così come non tutte le forme di relazione devono essere mediate dall’archivio. Non tutti i documenti e le opere d’arte sono stati creati per essere raccolti, classificati, conservati, mostrati o studiati. Tali procedure possono essere utili e illuminanti in alcuni contesti, ma invasive e dannose in altri. La valorizzazione dei documenti e delle opere d’arte, e la lettura “neutrale” delle modalità di gestione delle collezioni, cancellano non solo la concreta violenza esercitata quando gli archivi sono stati costituiti, ma anche l’intero orizzonte della violenza imperiale. (p. 41, trad. mia)
Ecco allora che la tassonomia occidentale del sapere, impostata in epoca illuminista e arrivata fino a noi con un’inerzia colpevole, è oggi l’oggetto di una critica dolorosa: quell’organizzazione scatolare per tecniche, discipline, “razze” e così via che costituisce la ragion d’essere dei musei e che caratterizza i curricula scolastici appare una gabbia tanto rigida e angusta da soffocare. Le storie negate scalpitano per essere dette, viste, danzate. Disapprendere, allora, può voler dire scavalcare quelle frontiere, aprire le vetrine e i cassetti, mescolare collezioni e tradizioni, contaminare.
Se, come suggerisce Rolando Vázquez, lo strumento per eccellenza della colonialità è la vista (la Tour Eiffel è il dispositivo che permette di innalzarsi e abbracciare in un solo colpo d’occhio l’universo, “riassunto” in quanto dominabile nell’Expo parigina del 1889) [3], i musei sono chiamati a far transitare gli oggetti delle collezioni, sia materialmente che metaforicamente. Questo vuol dire operare una profonda riflessione sia sulle pratiche di provenance research che di restituzione dei manufatti sottratti nella stagione coloniale, ma ancora prima, e ancora oltre, interrogarsi sul valore e il senso che si attribuisce a qualunque pretesa stabilizzazione del sapere. Sono di ispirazione pratiche come quella del Van Abbemuseum di Eindhoven, che riorganizza periodicamente l’allestimento della propria collezione di arte contemporanea rinunciando alla cronologia e facendo del tema scelto una potente spinta alla ricerca; questa ricerca è “disturbata” dai constituent groups, o gruppi di interesse, che lavorano stabilmente con il museo per garantire la presenza di temi e sguardi che dal margine vengono posti al centro della riflessione.
LE STORIE NON SCRITTE, QUELLE NON ASCOLTATE
Un’altra suggestione importante viene dal volume Immaginare la storia. Abbecedario del colonialismo italiano, curato da Federica Sossi [4]. Prendendo le mosse dal volume di Maaza Mengiste Il re ombra [5], che racconta la storia della resistenza etiope vista – e combattuta – dalle donne, Sossi parla del rapporto degli italiani con il fascismo come della “costruzione di una dimenticanza” [6]. La metafora della fotografia, centrale nel romanzo di Mengiste e ripresa da Sossi, suggerisce la necessità di un’attivazione per imparare a leggere quello che, nella storia, non è perfettamente a fuoco, la partitura dei chiaroscuri, l’attribuzione mai casuale del primo o del secondo piano. Questa “scrittura di luce” [7], con la sua tramatura di silenzi che rimane impigliata nell’immagine nonostante l’intenzione autoriale, a dire che anche questo è stato, chiede un altro modo di fare storia: di studiarla, scriverla, insegnarla.
Un’educazione decoloniale prevede allora di leggere (e insegnare a leggere) il sapere non secondo il tropo dell’evoluzione, ma secondo quello della stratificazione, dell’interpolazione, della contaminazione. I testi della conoscenza utilizzano scritture molteplici, fatte solo in minima parte di parole, che riguardano ugualmente, in chiave intersezionale, il colonialismo, il genere, l’orientamento sessuale [8], l’antispecismo, e così via [9]. Se c’è una maglia discontinua da interpretare, si tratta allora di creare lo spazio perché i vuoti si riempiano: auspicabilmente non seguendo il modello solido dell’”emersione”, ma quello fluido e decoloniale del “multiverso” [10]. Fra i molti esempi possiamo citare le letture della “presenza nera” nelle collezioni dei musei d’arte occidentali, pratica che si è diffusa nell’ultimo decennio attraverso mostre online e in situ, riletture della collezione permanente, installazioni (On Being Present agli Uffizi [11], London’s Black History al Museum of London [12], la mostra Slavery al Rjiksmuseum di Amsterdam nel 2021 e mille altri esempi), e più in generale l’esplicitazione dei legami con la storia coloniale da parte di molti musei, soprattutto per quanto riguarda i patrimoni dei loro fondatori, come nei casi del British Museum, del van Abbemuseum, del Rautenstrauch-Joest di Colonia, eccetera) [13]. Altrettanto, e forse più potente, il gesto di affidare la curatela alle/gli artiste/i, come in Recognition Rebuilt, l’installazione di Patricia Kaesenhout alla Kunsthalle Rotterdam, che capovolge il paradigma rappresentando l’Occidente in forma di wunderkammer (2023).
Mentre la riflessione su come insegnare le storie (e non più “la Storia”) prende faticosamente piede nella scuola dell’obbligo – al momento solo presso i/le docenti che si attrezzano autonomamente [14] – molto possiamo fare anche al tavolo della cucina, aprendo insieme gli album di famiglia (che facilmente attraverseranno le guerre mondiali) e provando a leggere il verso delle storie di cui ci è stato tramandato solo il recto. È quanto fa lo scrittore algerino Kamel Daoud nel suo romanzo Mersault, contre-enquête, in cui racconta la storia dello Straniero di Albert Camus vista dal lato della vittima, quello “straniero” colonizzato, ucciso e anonimizzato:
“Dunque la storia di questo omicidio non comincia con la famosa frase ‘Oggi la mamma è morta’, ma con ciò che nessuno ha mai udito, quello che mio fratello Moussa ha detto a mia madre prima di uscire, quel giorno: ‘Tornerò prima del solito’” [15].
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Già la scelta di parole latine, tanto più consistente quanto più si sale di livello nella formazione accademica e diffusa tanto in ambito neolatino che anglosassone, sta a indicare la stabilità del riferimento alla classicità. [2] Verso, Londra-New York 2019. [3] Rolando Vázquez, Vistas of Modernity. Decolonial Aisthesis and the End of the Contemporary, Mondriaan Fund, Amsterdam 2020, in particolare il capitolo La Tour: The Modern Gaze, pp. 23-32. [4] Ombre corte, Verona 2023. [5] Einaudi, Torino 2021 (ed. orig. Canongate Books, Edimburgo 2019). [6] Ivi, p. 7. [7] Ivi, p. 8. [8] Nicole Moolhuijsen, Queer Identities and Heritage: Current Developments and Hopes for the Future, in “Roots§Routes. Research in Visual Cultures”, n. 34, settembre-dicembre 2020, https://www.roots-routes.org/queer-identities-and-heritage-current-developments-and-hopes-for-the-future-by-nicole-moolhuijsen. [9] Federica Timeto, Corpografie multispecie: artivismo femminista e animali non umani, in “Connessioni remote”, n. 2, febbraio 2021, pp, 267-288. [10] Meg-John Barker e Alex Iantaffi, Life isn’t Binary. On Being Both, Beyond, and In-Between, Jessica Kingsley Publishers, Londra 2019, in particolare il capitolo Thinking, pp. 184-225. [11] https://www.uffizi.it/en/news/article-blackhistorymonth. [12] https://www.museumoflondon.org.uk/museum-london/london-black-history [13] Cfr. Anna Chiara Cimoli, I musei alla prova del pensiero decoloniale, Memorie da riattivare, vuoti da riempire, storie da riscrivere, in Sossi, cit., pp. 141-159. [14] Anna Granata e Stefano Pasta, Quando la storia risuona in classe. Strategie didattiche e relazionali per facilitare il dialogo e costruire una coscienza collettiva, in “Annali online della didattica e della formazione docente”, n. 14, 2022, pp. 96-112. Cfr. anche l’esempio dle progetto Transcultural Attentiveness promosso dal Goethe Institut di Roma e curato da Giulia Grechi e Viviana Gravano con la mia collaborazione per la progettazione delle attività proposte alle scuole superiori: https://www.goethe.de/ins/it/it/kul/gsz/tka.html. [15] Actes Sud, Parigi 2014, p. 20 (ed. orig. 2013, trad. mia).
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ABSTRACT
The article critically reflects on the concept of “decolonising education”, particularly from the point of view of the model of education proposed by contemporary museums. Some key concepts discussed are the interruption of the linearity of the historical track, its interpolation by insurgent histories, the allocation of space to counter-narratives. These elements are considered here as strong instruments of a curatorship capable of assuming a responsibility with respect to the instances of decolonisation that contemporary societies are going through.