
Ascoltando le argomentazioni di un amministratore locale, di un’organizzazione di cittadini attivi, di un sacerdote, di un coach -e spesso di progettisti sociali e culturali-, si noterà facilmente il richiamo continuo del concetto di comunità, tanto da sembrare che esso possa fortificare qualsiasi ragionamento pubblico, rendendolo immediatamente affabile e affidabile. Se parlo di comunità sembra che io stia agendo correttamente, connotando delle persone che ritengo accomunate da pratiche, interessi, percezioni e molto altro.
In tal senso, lo sfaccettato e multiforme dibattito sulla partecipazione culturale connessa a processi di innovazione sociale si è infatti spinto ad ospitare concetti complessi di community (organizing, management, empowerment e tanto altro). L’intento di cambiare l’esistente, di contrastare le diseguaglianze, di democratizzare il welfare e la cultura, sembrano in quel dibattito processi che non possano fare a meno della forza sottesa che le comunità sembrerebbero avere in sé implicitamente. Se non parlo di comunità è come se il mio discorso da operatore culturale fosse incompleto.
Cercheremo quindi di capire qual è il rapporto tra processi di partecipazione culturale e riferimenti comunitari. Per farlo ci faremo aiutare da Bertram Niessen e da Paolo Venturi, che di queste cose hanno scritto e anche molto bene.
Innanzitutto, cosa intendiamo quando parliamo di comunità? Bertram Niessen, ricercatore e direttore scientifico dell’agenzia per la trasformazione culturale cheFare, ci aiuta a definirne i tratti salienti nel volume “Spazi del possibile” curato da Roberta Franceschinelli.
Secondo Niessen, se la prima sociologia intendeva per “comunità” un’organizzazione delle società rurali premoderne, statiche e pertanto antitetiche alle società urbane moderne, in età contemporanea e in particolare nei primi anni del XX secolo tale concetto venne adottato dai fascismi europei, per essere poi ricondotto dopo la Seconda guerra mondiale a una interpretazione prevalentemente religiosa, con alcune isolate e rarefatte eccezioni. Dalla fine degli anni Novanta, in una rinnovata interpretazione, viene adottato dai movimenti critici verso la globalizzazione e il neoliberismo, come forma alternativa di potere e democrazia diretta delle comunità locali.
All’inizio del XXI secolo anche il mondo dell’innovazione e della cultura ha cominciato ad attribuire valore al concetto di comunità, riconoscendone i tratti, ad esempio in gruppi fisici o digitali e ibridi, solidali e aperti, che utilizzano il perimetro che li descrive non come argine reazionario e vessillo identitario al pari di quanto avveniva nel XX secolo, ma come motore generativo per includere le diversità: vere e proprie “comunità ibride di luogo” (Manzini, 2020).
Ad esempio, citiamo quanto è avvenuto per le Case del Quartiere di Torino, luoghi porosi, accessibili e interculturali che organizzano aggregazione e welfare di comunità soprattutto nelle periferie della grande città deindustrializzata.
Un’altra adozione valoriale da parte del mondo dell’innovazione e della cultura ha riguardato le cosiddette comunità di pratiche: la cooperativa Trame di Quartiere a Catania affronta il conflittuale tema del recupero del quartiere San Berillo, costruendo direttamente – con gli abitanti che più ne subiscono le conseguenze – informazione alternativa, contro-narrazione e pratiche di dignità abitativa e occupazionale.
Allo stesso tempo però, il mondo culturale fa spesso riferimento a proprie comunità di riferimento indicandole come insiemi di persone partecipanti che già per questo motivo, per la sola ragione di partecipare culturalmente, dovrebbero implicitamente essere pressoché tutte beneficiarie dei risultati del lavoro degli enti e delle organizzazioni del settore: come se la partecipazione culturale fosse equiparabile a una sorta di azione comune, svolta insieme ad altre persone connotate da medesime caratteristiche, di gusto, di appartenenza sociale, di disponibilità economica.
In questa visione, in questo racconto molto diffuso, sono comunità culturali quelle persone che visitano un museo, partecipano ad un concerto o a uno spettacolo teatrale, frequentano una biblioteca, magari come pubblico assiduo di alcune specifiche attività: ma queste comunità esistono davvero per come le si raccontano, così consapevoli e coese, fatte di persone in relazione tra loro, unite dal fatto stesso di partecipare culturalmente?
Facciamo un passo indietro. La partecipazione culturale è innanzitutto un atto individuale. Così viene interpretata ad esempio da ISTAT, quando utilizza come indicatore per descrivere il benessere delle persone (Rapporto BES, benessere equo e sostenibile). Ma solo se da “bene di comfort” si trasforma in un “bene di stimolo” (Venturi, Baldazzini, 2022) con capacità di generare capitale relazionale, allora la partecipazione culturale può diventare un fatto collettivo e con chances di stimolare coesione, spostando l’accento dall’oggetto culturale alla pratica socializzante. In questo ragionamento ci si spinge oltre quello che la Convenzione di Faro intende per “comunità patrimoniali”, per cui il punto focale è il valore attribuito insieme ad altri al patrimonio culturale; qui invece siamo nel campo della cultura come strumento abilitante.
Questo può produrre in alcuni casi fenomeni inclusivi e di riconoscimento in gruppi connotati da luoghi e pratiche. È quello che da un paio di anni sta succedendo per esempio a Torino, dove l’iniziativa La Cultura Dietro l’Angolo sostenuta da Compagnia di San Paolo sta stimolando enti culturali e presidi sociali a collaborare per contrastare fenomeni di povertà relazionale mediante un fitto programma di attività culturali socializzanti e di partecipazione culturale attiva nelle periferie della città. A Palermo l’iniziativa Traiettorie Urbane sostenuta da Fondazione Edison Orizzonte Sociale e Con i Bambini è finalizzata a contrastare le povertà educative mediante attività culturali e sportive con il medesimo fine di generare partecipazione attiva stimolando anticorpi sociali alle fragilità di città come il capoluogo siciliano.
Il principio di comunità di luoghi e di comunità di pratiche in casi come questi rafforza il valore socializzante dell’azione culturale e rende più concreto l’accrescimento del capitale relazionale, quella coesione alla base di qualsiasi trasformazione della persona e dei rapporti sociali.
Esempi del genere non rappresentano però l’intero mondo della produzione e della partecipazione culturale: le pratiche culturali e comunitarie possono essere escludenti se non intaccano e anzi incentivano le barriere, in alcuni casi adottandole come segno distintivo.
Quando ad esempio si dà vita ad una attività culturale che non tiene conto delle diverse esigenze dei pubblici, lasciando invariate barriere economiche o culturali, sensoriali o sociali, è comunque probabile che si stia creando una comunità attorno a quella attività. È una comunità culturale, quella? Probabilmente sì, è fatta da persone che riconoscono i propri simili nella partecipazione di cui sono protagoniste. È escludente quella comunità? Probabilmente sì, perché nel riconoscersi in un pari livello intellettuale, o di categoria sociale, o di disponibilità economica, o di lingua parlata, si sta tracciando un perimetro che determina chi può e chi non può partecipare culturalmente. E questo nel mondo culturale è molto più diffuso di quanto si possa pensare: bisognerà prima o poi avere il coraggio di ammetterlo e archiviare definitivamente il termine “esclusivo” come distintivo di eventi culturali di qualità.
Incentivare le comunità culturali non significa rendere automaticamente la cultura inclusiva; stimolare comunità culturali porose, accessibili e ibride, può invece consentire all’offerta culturale di giocare un ruolo rilevante nella costruzione di un’ampia e profonda coesione sociale, un contributo al cambiamento di condizioni di diseguaglianze ed esclusione.
BIBLIOGRAFIA
BAGNASCO A., Tracce di comunità – Temi derivati da un concetto ingombrante, Il Mulino 1999
MANZINI E. (2020), Comunità ibride di luogo. Politiche del quotidiano e resilienza. cheFare. Testo disponibile al sito www.che-fare.com/cosa-sono-le-comunita-ibride-di-luogo-un-nuovo-modello-di-resilienza-sociale/
NIESSEN B., I nuovi centri culturali oltre la comunità. Domande per nuove grammatiche del collettivo, in FRANCESCHINELLI R. (a cura di), Spazi del possibile – I nuovi luoghi della cultura e le opportunità della rigenerazione, FrancoAngeli 2021
VENTURI P., BALDAZZINI A., Imprenditorialità di impatto sociale e strumenti di co-progettazione per la valorizzazione del patrimonio culturale, short paper, AICCON 2022
VENTURI P., ZANDONAI F., Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società, Egea 2019
Leggi anche gli altri articoli sul tema della partecipazione nell’ambito del percorso di collaborazione tra Letture Lente e Hangar Piemonte:
Dove va la partecipazione democratica?
Le strade della partecipazione
ABSTRACT
Is it enough to participate culturally to be community? The word, the concept, and the scenario are so strong in the public discourses of cultural organizations and so fascinating even just to evoke their existence that tackling a secular reading of them risks being a slippery. Let us try to make an argument, starting from the assumption that participating culturally does not automatically mean being part of a cultural community; and that being part of a cultural community does not automatically mean being part of a process of open and porous social cohesion.