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LETTURE LENTE - rubrica mensile di approfondimento
Letture Lente ospita la recensione di Luca Dal Pozzolo del volume di Giovanna Brambilla “ALDIQUA. Immagini per chi resta” (Lubrina Bramani Editore, Bergamo, 2022)

Fascino delle soglie

Aldiqua è un lampo di genio, una saetta per un titolo che sarebbe piaciuto a Marinetti. Aldiqua perché si parla della vita, per quanto ci si approssimi all’ultima soglia, perché fin quando si sta da questa parte, ben fitti nel terreno o come d’autunno sugli alberi le foglie, ha ragione Duchamp nel far scrivere sulla sua lapide che in fondo sono sempre gli altri a morire.

Aldiqua, perché tutto ciò che vien dopo è ancora preoccupazione terrena; Aldiqua, perché l’ultima soglia, ci dice Giovanna Brambilla, recinta il nostro verbo, ne occlude l’orizzonte e lo torce a parlare ancora della vita.

Giovanna Brambilla fa sua una delle più celebri sentenze di Wittgenstein: di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. E ostinarsi a parlare della vita, e non parlare e non scrivere di ciò che starebbe oltre la soglia, non è professione di agnosticismo, tantomeno esercizio di crudo materialismo; è salvaguardia della dimensione altra e inconoscibile, dell’aura che soltanto il silenzio può preservare e che pervade di senso il limite estremo.

Giovanna è rapita dalle soglie; il suo libro precedente, Mettere al mondo il mondo [1], si occupa sempre di una soglia, dell’attraversamento che porta Aldiqua e che solo da questa parte può essere indagata; d’altronde, è sempre qui che resta molto da dire, anche quando il mondo scivola via nel passaggio dall’altra parte.

Soprattutto per l’arte, che ha fatto del dolore di fronte alla morte uno dei temi a più alto tasso di iconicità, che dal compianto sul Cristo morto tracima nella mitologia, per dilagare nelle vicende del quotidiano degli stessi artisti e dei loro affetti, attraversando le celebrazioni dei funerali borghesi, fino alla rappresentazione minimale e definitiva dell’assenza, distillata dagli artisti contemporanei.

L’ansa di un braccio

Chi si farà guidare dai percorsi affascinanti di questo libro non potrà fare a meno di sottrarsi dal seguire lo sguardo-bisturi da anatomopatologa di Giovanna Brambilla nel dissezionare le immagini e dal cercare, anche in futuro nelle grandi opere, la curva di quel braccio senza vita, abbandonato e inflesso, come se il rigor mortis avesse pietà della dolcezza di quel debole raggio di curvatura, come fosse un rapporto aureo che attraversa l’iconografia del compianto, dalla deposizione di Roger van der Weiden in cui le braccia inflesse del Cristo raddoppiano nell’identica posizione della Madonna, anche lei sostenuta nella coreografia di una deposizione imposta dal dolore; quel braccio che solo un poco più incurvato ritorna nella Pala Baglioni di Raffaello, che accoglie lo sguardo nell’ampio golfo del gomito della Pietà di Michelangelo, riprodotta nella versione contemporanea da Jean Fabre, non fosse per la mano che, per quanto abbandonata, tiene un cervello, con delicatezza, come se l’atto del tenere fosse l’ultimo legame con l’Aldiqua appena lasciato. Analogamente, nella composizione di David, il braccio di Marat oltre il bordo della vasca finisce la sua curva sfiorando il pavimento con la stessa dolcezza sinuosa e non si dubita che la mano ormai abbandonata riesca a tenere in verticale la penna con la quale ha vergato l’ultimo foglio, ancora trattenuto dall’altra mano. Il corpo è tutto Aldiqua, anche nella sua postura, come non fosse pienamente sancito l’atto del trapasso. E c’è da scommetterci che verificheremmo un analogo raggio di curvatura nel braccio del Cristo morto, se solo potessimo averne una visione ortogonale, invece dello scorcio vertiginoso da ripresa in soggettiva che ci offre il Mantegna.

È lo sguardo di Giovanna Brambilla che ci mostra nell’analisi di opere così diverse lungo il corso della storia ciò che i coreografi sanno da sempre, che la curvatura delle braccia e la postura delle mani incarnano l’apice dell’espressività del corpo, anche nel raffigurare l’abbandono della vita, oltre al dolore.

Dal teatro all’insostenibilità dell’assenza

Le immagini del commiato dicono molto di come il nostro essere animali sociali si esprima compiutamente di fronte agli eventi esistenziali estremi, mettendo in scena le strategie per plasmare le forme del dolore e trovi massima espressione nelle antropologie di elaborazione del lutto in una molteplicità di fattispecie diverse. Giovanna Brambilla ne segue le tracce, laddove la pittura stessa diviene per il pittore esercizio di commiato nel ritrarre i congiunti, nel trasfigurarne gli ultimi momenti di vita, e vengono simmetricamente in mente le splendide pagine di “In quel preciso istante” con le quale il grande critico d’arte John Berger vive la morte del padre come un disegno inseguito e inciso con la parola [2].

Ma la scena intima trascolora in tempi più recenti nelle liturgie del funerale, che affondano le origini nell’alba primigenia della civiltà, ma che declinano il loro portato dall’Ottocento in poi nel teatro della società borghese, nella compostezza rigida dell’abbigliamento scuro, nelle scenografie delle genuflessioni, della preghiera e dei cortei, nella celebrazione commerciale del rito funebre, che non esita a trasformare le immagini del commiato in cover per smartphone.

E’ solo una tappa del viaggio attraverso il quale Giovanna Brambilla ci conduce, perché gran parte dell’analisi è dedicata all’arte contemporanea, dove la rappresentazione del commiato attraversa un processo di rarefazione, abbandona ridondanze iconiche per assumere valenze concettuali e simboliche, fino a concentrare in un minimo di immagine il peso insopportabile dell’assenza, come fosse l’implosione di una stella la cui massa si addensa e si concentra fino a trasformarsi in un buco nero dall’infinita attrazione gravitazionale interna e il cui bordo rappresenta l’orizzonte degli eventi, il limite da cui nulla può uscire, il confine del paese dal quale nessun viaggiatore ritorna.

In questa accezione l’arte contemporanea ripercorre in senso inverso il cammino di tanta iconografia del passato che spesso, anche nelle sue rappresentazioni più crude, portava con sé i tratti di una consolazione, i principi attivi più o meno potenti di un pharmakon per l’elaborazione del lutto. L’arte contemporanea combatte l’anestesia, la domesticazione dell’assenza nel rito, l’elaborazione del lutto come depotenziamento del dolore, e per far questo spoglia l’iconicità dei suoi equilibri compositivi, rassicuranti almeno per lo sguardo, disloca l’immagine prosciugata e disidratata nella sua essenzialità in territori imprevisti, in simbologie inconsuete per mantenere tutto il potere dirompente dell’irrimediabilità della perdita, per congelare un trauma il cui destino non sia transeunte, in strenua opposizione a una contemporaneità che propone un presente illimitato, dal quale rimuovere meticolosamente la prospettiva dell’ultima soglia.

 Visioni del viaggio

Il percorso che ci propone Giovanna Brambilla nel suo bellissimo libro è un viaggio di scoperta dei molti modi con i quali l’arte e le società, almeno quelle occidentali, hanno guardato all’evento esistenziale per eccellenza, svelandone le paure, le crittografie delle immagini e i molteplici sensi nidificati anche solo in un dettaglio.

Il suo lavoro meticoloso e acuto è la metafora critica e letteraria della celeberrima Isola dei morti di Böcklin: Giovanna con la sua barchetta e a colpi di remo che non increspano un‘onda – ma senza rinunciare alla scia che segni il tragitto – ci porta davanti allo scrigno di quest’isola e ci aiuta a discernere gli elementi costitutivi del paesaggio, le rocce, le luci, le guglie dei cipressi, la quiete delle acque, le trabeazioni al di sopra dei varchi e delle porte che si schiudono nelle pareti di sasso, portando tutto alla visibilità autoptica del primo piano, svelando tantissimo della nostra società e di noi nella nostra dimensione esistenziale, ma null’altro che non sia irrimediabilmente Aldiqua.

Perché ciò di cui non si può parlare non vada gualcito. Nemmeno dalla parola scritta.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Giovanna Brambilla, Mettere al mondo il mondo, Milano, 2021, Vita e Pensiero

[2] John Berger, In quel preciso istante, in Sul disegnare, libri Scheiwiller, Milano, 24 ORE Motta Cultura srl, 2007

Abstract

Here, on this side is a long trip through centuries of iconography representing the very moment of the last farewell. It is a book about life because the cold cut of absence is something that deals with living people; it is something here, on this side. Nothing can be said of the other side, which must be preserved in its aura’s silence.

However, Art says a lot about us and our way of facing the final cut through centuries, starting with the mourning in front of the Dead Christ and the long sequence of depositions, from Roger van der Weiden to Raffaello Sanzio, Mantegna, Michelangelo’s mercy, till Marat death by David, that declines the holy posture in the moment of his murder. The text goes through the way artists painted the tragedy of their relatives as a sort of consolation for their loss to get to the bourgeois liturgy of the burial. Nevertheless, the most crucial topic of the book is the way contemporary Art represents the absence, the leaving of realism and icons, the symbolic representation of a trauma that has to stand and last forever with his unbearable burden of sorrow against a society living in an eternal present, that tidily erase the image of the end. Here on this side, is a beautiful autoptic exercise on the body of Art that gives us the contemplation of the last threshold back in all its sacredness.

 

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Luca Dal Pozzolo

Luca Dal Pozzolo

Architetto, è Direttore dell’Osservatorio Culturale del Piemonte. I suoi ambiti di ricerca riguardano le politiche culturali e la programmazione territoriale, i beni culturali e lo sviluppo locale. È stato visiting professor in diverse università in Francia, Belgio e Spagna. Ha pubblicato numerosi libri e articoli sui temi dell’economia della cultura, della programmazione culturale e della progettazione urbana. Insegna inoltre presso il Politecnico di Torino.

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