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LETTURE LENTE - rubrica mensile di approfondimento
L’articolo rielabora e in parte riproduce brani del paper “L’arte inquieta. Un progetto di welfare a base culturale per ripensare l’identità urbana”, prodotto da Lisa Bigliardi, Veronica Ceinar, Ilaria Gentilini, Rosa Di Lecce, Leonardo Morsiani, Flaviano Zandonai e Davide Zanichelli in occasione del Convegno internazionale sul Welfare Culturale tenutosi a Reggio Emilia il 10 marzo 2023
Photo: Wikimedia Commons, Palazzo Magnani

Palazzo Magnani, prima direttamente come Provincia di Reggio Emilia e successivamente sotto forma di fondazione di partecipazione, si occupa di cultura e arti visive dal 1997. Dal 2016 ha inaugurato un percorso focalizzato sulla visione dell’arte, fruita e praticata, come una delle leve principali di cui una comunità dispone per conciliare evoluzione individuale, inclusione e coesione sociale.

Tale visione si è inserita in una più ampia cornice di politiche pubbliche basate sul principio che se si progetta per i più fragili ciò che si realizza andrà bene per tutti. Varietà umana, inclusione sociale e uguaglianza: sono questi concetti chiave del design for all che hanno ispirato le produzioni di questi anni. Ancora di più: il confronto con la fragilità nei processi di co-design conferisce un valore aggiunto specifico al progetto. Nella dimensione della fragilità risiedono risorse inattese e, per certi versi, valori aggiunti risolutivi.

Questo nuovo mindset che dà forma al design degli spazi e dei servizi al cittadino (tra cui anche, ma non esclusivamente, le produzioni culturali) è stato inaugurato nel 2014 con il progetto Reggio Emilia Città Senza Barriere, da Annalisa Rabitti, allora Presidente delle Farmacie Comunali Riunite (azienda speciale del Comune di Reggio focalizzata nella distribuzione e vendita di farmaci i cui utili di esercizio finanziano il welfare cittadino) e successivamente Assessora comunale a Cultura, Turismo, Pari opportunità e Marketing territoriale. Il progetto è tra quelli di mandato della legislatura comunale che si concluderà nel 2024. Nel 2022 è stato sottoscritto il primo protocollo tra le istituzioni fondatrici e oltre 60 soggetti tra altri enti, cooperative sociali e associazioni del Terzo settore, della cultura e dello sport, capaci di muovere oltre 500 stakeholder nei processi partecipativi e oltre 3.000 persone negli appuntamenti pubblici dedicati a manifestazioni ed eventi culturali, come ad esempio “Notte di luce”, in occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità.

Questa premessa è fondamentale per comprendere l’importanza del lavoro di nudging mirato che ha reso possibile l’attivazione, a distanza di quasi dieci anni, non solo quei meccanismi organizzativi che innescano per tempo calendari di formazione incrociata tra cultura e welfare e pianificazione delle agende, ma, soprattutto, l’attivazione di una volontà di partecipazione da parte dei singoli soggetti che riconoscono nel processo un valore aggiunto, sia nelle pratiche di apprendimento continuo sia nell’esercizio delle loro attività quotidiana con gli utenti dei servizi.

La Fondazione Palazzo Magnani produce mostre d’arte temporanee (mediamente due, tre mesi) e iniziative culturali connesse. La progettazione e realizzazione di una mostra d’arte tende spesso a essere trattata come un “evento” connotato da crescenti elementi ricreativi e di svago che contribuiscono, anche involontariamente, a definirne l’essenza non solo in termini di contenuti e di significati ma anche di elementi di natura organizzativa e gestionale. Uno, tra questi ultimi, emerge in modo piuttosto evidente, ovvero la natura di attività “finita”, che per quanto possa essere dilatata soprattutto in sede di “produzione” (preparazione, esposizione, iniziative collaterali, follow-up, ecc.) tende a compiersi secondo un percorso lineare che segue le più classiche coordinate spazio-temporali. In epoca recente però una parte sempre più consistente della produzione culturale sta provando ad uscire dalle secche dell’eventologia, configurandosi piuttosto come vettore di innovazioni sociali di processo che ambiscono a generare impatti positivi e duraturi rispetto a una pluralità di pubblici e di comunità, guardando ai comportamenti individuali e collettivi, ai modelli organizzativi e gestionali di enti e istituzioni e, non da ultimo, agli assetti regolativi e soprattutto al carattere promozionale delle politiche. Uno sforzo di creatività sul versante organizzativo, gestionale e di governance volto a superare approcci settoriali grazie al perseguimento di missioni trasformative. In questo senso il focus progettuale e valutativo si sposta dal formato dell’evento alla sfida da affrontare rispetto alla quale la produzione culturale tende a proporsi come catalizzatore e orchestratore di ulteriori azioni e risorse che ne rappresentano una componente essenziale e costitutiva e non semplicemente “satellitare” e periferica.

Due sono i focus trasformativi che questa visione della mostra d’arte ha l’ambizione di sollecitare. Il primo riguarda l’abilitazione del protagonismo di mondi professionali (educatori, care-giver, operatori dei servizi socio-sanitari) che solitamente vengono tenuti ai margini della fruizione, raramente previsti nel momento della progettazione. In questo modo vengono ridefinite le modalità attraverso cui si sostanziano i significati che connotano capacità sociali chiave – come inclusione, coesione, educazione – poste alla base di quei processi di infrastrutturazione sociale che appaiono sempre più cruciali per riprodurre le basi comunitarie e societarie del vivere in comune. Alcuni numeri dell’ultima stagione espositiva: 23 servizi socio-assistenziali coinvolti (dai servizi sociali del Comune di Reggio Emilia alla vasta galassia del privato sociale, fino all’ambito socio-occupazionale), oltre 110 operatori incontrati e formati ai contenuti delle mostre e alle metodologie di co-progettazione (vedi dopo: “L’arte mi appartiene” e “Sguardi riflessi”), circa 300 utenti coinvolti nelle diverse sedi.

Il secondo focus trasformativo consiste nel contributo al ripensamento dell’identità urbana, principalmente promuovendo e accompagnando innovazioni sociali che scaturiscono da contesti marginali e di fragilità sociale e che quindi non sono riconducibili, anzi sono spesso antitetiche, rispetto alle dimensioni classiche del city branding ormai “esauste” sia in termini di capacità di riconoscimento delle peculiarità della dimensione di luogo, che di impatto sulla qualità della vita urbana. Il pensiero e la visione dei fragili, invece, così come della parte fragile di ciascuno di noi, quella meno certa, meno risolta, più in disequilibrio, vengono assunti come rilevanti e nuovi. Non si lavora quindi sull’innovazione che scaturisce da certezze cristallizzate in nuove idee e modelli di servizio (e di business, spesso dai connotati estrattivi), ma sull’incertezza, sulla possibilità di cadere, aprendosi consapevolmente all’instabilità del rischio, che è la dimensione oggi più caratterizzante non solo il ristretto ambito del “sociale”, ma la comunità e la società in senso lato, oltre alle esistenze individuali. E in questo contribuisce a riconoscerci come simili. Una comunità che, nel riconoscere le fragilità dei singoli, legittima sé stessa rispetto alla propria fragilità collettiva, rendendola elemento aggregante e di rispecchiamento, che non comporta un disvalore o un minus, ma un valore di dignità per tutti.

Il progetto “Identità inquieta”, di cui la mostra L’arte inquieta. L’urgenza della creazione a Palazzo Magnani è stato il momento culminante, ha ben rappresentato la coralità con cui i mondi della cultura, del sociale e della sanità hanno cooperato nella definizione di un unico grande cartellone di iniziative che per sei mesi hanno interrogato ampie parti di città sul concetto di identità.

Quello salutogenico è il paradigma entro cui si articola la visione. Paradigma solo recentemente riscoperto e, per certi versi, ancora acerbo nelle sue potenzialità disruptive in ogni dimensione dell’agire sociale, dall’educazione all’economia, all’architettura, all’urbanistica, all’ecologia. Riconoscere il legame stretto tra cultura (arte nello specifico), benessere e salute significa “riportare a casa” l’arte, in quella sede che già gli antichi greci ponevano nel teatro a fianco del tempio di Asclepio, dopo una lunga “vacanza borghese” che ha legato (e tutt’ora in gran parte lega) la produzione artistica alle dimensioni dell’intrattenimento e dell’economia.

Per questa condizione ancora adolescenziale della consapevolezza dei processi salutogenici, condizione di “metà guado”, cioè ricca di opportunità ma ancora povera in termini di strategia e di politica, abbiamo individuato due ambiti di progettazione e intervento che puntano a consolidare il carattere paradigmatico del welfare culturale.

Il primo consiste nell’allestimento dei contesti di regia (programmazione e governance) e nelle modalità di azione al loro interno che connotano la progettazione e la gestione di vere e proprie politiche di welfare culturale, consentendo così a un insieme variegato di iniziative di realizzare un livello di strutturazione tale da sapersi efficacemente “annidare” in diversi contesti dello sviluppo urbano agendo come pratica di cambiamento.

Il secondo riguarda l’esercizio di ruolo da parte di alcune figure come progettisti e operatori sociali ai quali viene assegnata una più marcata funzione di infrastrutturazione sociale da esercitare grazie a un approccio autenticamente educativo nei confronti di molteplici interlocutori. A questi soggetti è richiesto infatti di saper “tirar fuori” da situazioni di fragilità, incompiutezza e assenza nuove sensibilità e capacità che contribuiscono a riconfigurare gli attuali sistemi di welfare in senso capacitante, superando in particolare modelli di produzione, fruizione e governo che tendono a separare i servizi rispetto alla generatività della dimensione locale e comunitaria.

Gli apporti in termini individuali e collettivi che questo approccio e metodo di welfare culturale richiede di agire, in particolare rispetto alla dimensione di apprendimento, si possono configurare come un vero e proprio “bene comune”, quasi come un’opera d’arte, una tecnica o fantasia morale (esattamente nel senso della “scultura sociale” che proponeva Joseph Beuys) e che i diversi soggetti coinvolti contribuiscono a realizzare e da cui si possono alimentare per rifondare i loro percorsi di crescita professionale, individuale e collettiva. In questo senso la “materializzazione” degli elementi di apprendimento in termini visuali e la loro archiviazione affinché possano essere costantemente alimentati e fruiti rappresenta un ulteriore elemento di valore in termini metodologici perché configura non tanto un esito del percorso ma un vero e proprio patrimonio che può/deve essere reinvestito per realizzare gli impatti sociali desiderati.

Per abilitare questa visione, la Fondazione Palazzo Magnani si è configurata nel tempo come una vera e propria piattaforma, su cui possono atterrare, riconfigurarsi, arricchirsi o semplicemente funzionare meglio tutte quelle progettualità che hanno a che fare con lo sviluppo integrale della persona. Gli strumenti che nel tempo hanno raggiunto un pieno livello di maturazione e di presenza strutturata e costante lungo tutto l’anno di programmazione culturale sono due, direttamente coordinati dal dipartimento educativo della Fondazione guidato da Rosa Di Lecce: “L’Arte mi appartiene”, dotato di un propria e originale metodologia, il progetto è sviluppato insieme al team delle Farmacie Comunali Riunite ed è destinato al mondo della disabilità e della fragilità sociale; “Sguardi riflessi”, sviluppato con Asp Città delle persone, è dedicato alle persone con Alzheimer e ha portato alla formazione di oltre 50 operatori e care-giver.

Costante è la sperimentazione di nuovi approcci e l’attivazione di progetti pilota, anche in collaborazione con il mondo della ricerca universitaria (UniMoRe è socio istituzionale della Fondazione Palazzo Magnani) e con ricercatori partner come Sara Uboldi (già nel team del Cultural Welfare Center e assegnista di ricerca per l’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del CNR) che si occupano di analisi d’impatto, fondamentali per non scadere in tentazioni autoreferenziali di compiacimento e reiterazione meccanica di pratiche consolidate dal gradimento di pubblico e operatori.

Sitografia

www.palazzomagnani.it

https://b-dirittoallabellezza.it

www.cittasenzabarriere.re.it

ABSTRACT

The article partially reproduces excerpts from the paper “Restless Art. A Culturally Based Welfare Project to Rethink Urban Identity,” produced by Lisa Bigliardi, Veronica Ceinar, Ilaria Gentilini, Rosa Di Lecce, Leonardo Morsiani, Flaviano Zandonai, and Davide Zanichelli on the occasion of the International Conference on Cultural Welfare held in Reggio Emilia on March 10, 2023.

 

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Davide Zanichelli

Davide Zanichelli

Davide Zanichelli, Direttore della Fondazione Palazzo Magnani

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