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A quali condizioni i direttori potranno garantire sostenibilità?

In queste giornate estive la cultura è al centro di due attenzioni: la fruizione dei nostri tanti beni (legati al patrimonio ma anche alle tante iniziative che animano le nostre città e i nostri borghi) e la questione dell’esigenza di dotare i nostri musei (ma per estensione tutte le istituzioni culturali) di manager in grado di guidarli come vere e proprie aziende; esigenza posta dal direttore generale dei Musei del MIC, Osanna nel contesto della nomina dei direttori generali delle istituzioni culturali autonome. Dall’altro lato (della barricata) in molti hanno sollevato gli scudi affermando che un museo non è una azienda e che un manager di per sé non è in grado di affrontare le specificità e le complessità di una istituzione culturale che è cosa diversa da una azienda.

Per molti versi questo dibattito appare un po’ ideologico (privato v/s pubblico, mercato v/s finanziamento pubblico, efficienza v/s missione, ecc. ) perdendo di vista le questioni che sono, a mio avviso, centrali.

Può un manager guidare una istituzione culturale. Certamente ed è fortemente auspicabile. Perché manager non vuol dire uno che guida una azienda per fare profitto né che ne stabilisce le finalità. Manager vuol dire

“Dirigente d’azienda, di elevata posizione, che accentra in sé le funzioni dell’imprenditore, assumendo la responsabilità della conduzione dell’azienda (o di un settore aziendale) e delle relative decisioni, pur non essendo generalmente il proprietario” (Treccani)

Può una istituzione culturale essere intesa come una azienda? Fino ad un certo punto, ma per alcuni versi certamente sì posto che una azienda è

“In generale, organismo economico composto di persone e di beni… a. privata….a. di famiglia…a. pubblica.” (Treccani)

In nessun caso questi concetti sono legati indissolubilmente al concetto di profitto e quindi il loro funzionamento alle leggi del libero mercato, se non nella nostra rappresentazione corrente. Per cui di per sé affermare che avere manager che trattino un museo come una azienda non vuol dire automaticamente cedere alle bieche leggi del mercato le istituzioni culturali. A vederla in positivo, manager e azienda introducono aspetti estremamente positivi e per molti versi richiamati da tutti: assunzione di responsabilità (presa di decisioni), imprenditività (e non mera gestione amministrativa), economia e quindi sostenibilità economica.

Il vero problema quindi, non è di natura ideologica ma è di natura pratica. Ossia riguarda le condizioni alle quali questi concetti e questa cultura organizzativa gestionale è applicabile con successo a “aziende” che hanno molte particolarità e soprattutto una missione che non è per nulla assimilabile ad una azienda che deve fare profitto in quanto parte essenziale della sua missione e che di questo deve rispondere ai sui shareholders. Basterebbe poi non usare il termine azienda (visto che nell’uso comune una identità spiccatamente profit) ma più semplicemente il termine organizzazione:

“d. Con sign. concr., corpo organizzato, associazione di persone collegate tra loro in una struttura organica per cooperare a un fine comune” (Treccani)

Tra le tante condizioni necessarie a rendere feconda questa ibridazione tra due approcci gestionali (uno più burocratico-amministrativo e un altro più imprenditivo) vi sono quelle legate al fundraising, ossia la capacità di rendere sostenibile una organizzazione che non è guidata dal profitto anche attraverso una economia che non è guidata né dal mercato né dal finanziamento pubblico, senza sostituire queste ma integrandosi con esse.

Altre condizioni importanti sono già state messe in evidenza da molti esperti del mondo culturale. Tra i tanti cito il contributo di Pier Luigi Sacco in un suo post su Facebook. Posto che un museo pubblico (della comunità, mi piacerebbe dire) è impossibile che si sostenga adeguatamente solo con il mercato (pena perdere di vista la sua missione e il suo ruolo) o solo con la finanza pubblica (non solo perché non vi sono risorse sufficienti a ciò, ma anche perché il raggiungimento della sua missione produce un valore aggiunto che concorre a creare condizioni di benessere personale e della comunità (chiamiamolo pure welfare), oggi non può esistere senza una forte e continuativa strategia di fundraising. Come per altro succede in tutte le istituzioni culturali di paesi analoghi all’Italia da molti anni senza che questo crei polemiche e, al contrario, registrando un consenso politico e sociale ampio.

Per cui tra le condizioni necessarie per rendere positiva l’esperienza di tali manager e per trattare le istituzioni culturali come aziende non profit serve che questo manager, tra le altre cose sappia cosa è il fundraising, si assuma la responsabilità (visto che opera in una istituzione autonoma e deve essere imprenditivo) di rivolgersi a professionisti, potenziare le capacità interne del personale, comunicare e relazionarsi in modo diverso con gli stakeholder anche in chiave di fundraising, riservare una parte importante del suo tempo a guidare il fundraising (perché questo è quello che fanno i manager di istituzioni culturali in tutto il mondo), innovare i processi e le funzioni interne affinché tutte le componenti della organizzazioni svolgano il oro lavoro anche coerentemente con le finalità di fundraising e molto altro.

Allora la vera questione non è se dotare o meno le istituzioni culturali di manager, ma se il nostro sistema di formazione e di selezione del personale stia facendo in modo tale che i manager sappiano agire sul fundraising nella consapevolezza che altrimenti non renderanno sostenibili le istituzioni culturali.

Sarebbe quindi il caso che accanto a questa politica “manageriale” vi siano investimenti in formazione specifica dei manager, in formazione del personale interno, in definizione di standard e criteri relativi al fundraising che guidino la selezione del personale (Gentile candidato: sai cosa è il fundraising? hai fatto esperienze di fundraising? Ne sai di digitalizzazione – che è indispensabile per il fundraising moderno -?, conosci il quadro normativo, fiscale e contributivo della raccolta fondi?, hai mai istituito o sai come si fa una associazione “amici di…” o una membership?…). E su questo aspetto mi sembra che stiano ancora molto indietro posto che a fronte di un conclamata bisogno del sistema culturale di accedere a risorse private, ancora si fa molto poco per favorire, facilitare e soprattutto mettere in pratica il fundraising.

Tenendo conto per altro che fare fundraising vuol dire anche rivedere i rapporti con gli stakeholder, con la comunità anche in una logica di audience development e community engagement e avviare processi di innovazione digitale e quindi , di fatto, innescare ulteriori processi di innovazione culturale, sociale e tecnologica.

Se potessi, darei questo consiglio: troviamo i manager, magari selezionandoli anche in base alle competenze ed esperienze di fundraising, ma accompagnandoli con un itinerario di professionalizzazione al fundraising e assistendoli nella adozione, da parte di tutta la istituzione che guideranno, di un approccio strategico al fundraising. Per fare tutto ciò le competenze e anche alcune esperienze significative realizzate da alcuni manager di istituzioni culturali sono disponibili anche nel nostro paese. Tutto ciò avrebbe anche un valore di sperimentazione a beneficio di tutta la platea delle istituzioni culturali, posto che nel nostro paese abbiamo ancora una esperienza insufficiente e non largamente condivisa su questa materia.

Massimo Coen Cagli

Massimo Coen Cagli

Fondatore e direttore scientifico della Scuola di Fundraising di Roma. Docente e consulente senior di fundraising. Ha scritto il primo manuale italiano sul fundraising nel 1998 ed è autore di numerosi saggi con una particolare attenzione al rapporto tra fundraising e welfare culturale. E’ ideatore del progetto “+fundraising +cultura”, l’unico evento italiano dedicato interamente al fundraising culturale (www.fundraisingperlacultura.it). . E’ stato ed è tuttora consulente e formatore di numerose organizzazioni e istituzioni in ambito culturale e sociale anche dirigendo programmi nazionali quali Artraising (Ales spa-MIC) e Biblioraising (Cepell-MIC). È consulente del Comune di Procida per l’attuazione del programma di fundraising di Procida Capitale della cultura 2022. In quanto esperto di fundraising culturale è stato chiamato dalla Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali nell’accompagnamento delle 10 città candidate a capitale della cultura 2024 per lo sviluppo di attività di fundraising.

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