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LETTURE LENTE - rubrica mensile di approfondimento
#ottomarzotuttolanno Il mensile di approfondimento Letture Lente prosegue nell’impegno per l’uguaglianza di genere. La call di intelligenza collettiva lanciata nel settembre 2019 si arricchisce di un nuovo contributo sul tema del linguaggio di genere che mostra quanto la cultura sia il terreno di battaglia e di cambiamento verso un futuro più giusto
Lettere Colorate Disegnate

Ciclicamente torna al centro del dibattito pubblico il tema del linguaggio di genere e di quanto sia effettivamente importante per la diffusione di una cultura di pari opportunità tra uomini e donne. Accade che se ne parli perché comunicare attraverso le parole è una caratteristica unica del genere umano, e la lingua è ciò che usiamo per dire di noi e di quello che amiamo (e anche di quello che non amiamo). È il modo che abbiamo per conoscere gli altri, è un filo che attraversa le nostre vite e con cui abbiamo a che fare quotidianamente in tutti i contesti: personale, professionale, e pubblico. E’ parte integrante della cultura dentro cui ci orientiamo e che costituisce un terreno di battaglia e di cambiamento verso un futuro più giusto.

USARE LA LINGUA IN MODO NON SESSISTA: È POSSIBILE

Leslie Kern nell’introduzione del suo saggio “La città femminista” citando Jane Darke, geografa femminista, scrive che “ogni insediamento è un’iscrizione nello spazio delle relazioni sociali all’interno della società che lo ha costruito”. Si potrebbe tentare un’analogia con il linguaggio, dicendo che l’uso della lingua fotografa le relazioni sociali della società che la parla influenzandole e rendendo norma naturale ciò che invece è frutto di una scelta?

“La prevalenza del maschile-ove-non-altrimenti-indicato nei nostri schemi mentali potrebbe apparirci meno sorprendente se si pensa a quanto sia radicata in uno degli elementi fondanti della società umana, ovvero il linguaggio”, scrive Caroline Criado Perez nel suo “Invisibili”, zeppo di esempi e di spunti interessanti che mettono in luce l’invisibilità femminile in tutti i campi, tra cui la lingua. In particolare uno studio del 2015 mostra uno dei potenti effetti del linguaggio sulla nostra comprensione delle cose e sui comportamenti. Si tratta di uno studio sullo stato di salute percepito nelle indagini psicologiche che “ha dimostrato che l’uso del maschile generico nei questionari condizionava le risposte dei soggetti femminili, con una potenziale alterazione dei punteggi e del loro significato”.

È quindi prioritario interrogarsi sull’uso sessista della lingua e provare a sovvertirlo. In questo senso andava il lavoro della linguista Alma Sabatini che nel 1987, per conto della Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, curò la pubblicazione “Il sessismo nella lingua italiana”. Nelle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, che costituiscono una parte del lavoro, si metteva in risalto la prevalenza del genere maschile anche per indicare il femminile e si fornivano una serie di idee pratiche su come declinare i femminili professionali e più in generale su come usare formule non sessiste. Negli anni al lavoro di Sabatini se ne sono aggiunti molti altri. E’ utile citare ad esempio le linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo curate dalla linguista Cecilia Robustelli promosse dal Comitato Pari Opportunità del Comune di Firenze in collaborazione con l’Accademia della Crusca e il Manifesto di Venezia, ovvero il Manifesto per il rispetto e la parità di genere lanciato nel novembre 2017, promosso dalle commissioni Pari Opportunità di Fnsi e Usigrai, con l’associazione GiULiA Giornaliste e il Sindacato giornalisti Veneto.

RESISTENZE AL CAMBIAMENTO

Tuttavia, ogni volta che la cronaca ci riporta di una donna che arriva ad occupare una carica per la prima volta o in un luogo particolarmente prestigioso, si riaccendono le discussioni sulla liceità dell’uso dei femminili professionali. È accaduto ad esempio alla fine del 2020 con l’elezione della Rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, e con l’arbitra Stephanie Frappart, prima donna a dirigere una partita di Champions League maschile (sarà sempre lei la prima donna a dirigere una partita di mondiale maschile in Qatar nel 2022). In quell’occasione Vera Gheno, sociolinguista e autrice nel 2019 del saggio “Femminili singolari” edito da Effequ, ha ripercorso – e risposto – su Valigia Blu le tante critiche all’uso dei femminili professionali: dalla cacofonia all’appello alla tradizione, dalla presunta neutralità del ruolo, alla sempreverde accusa di benaltrismo: “perché non vi occupate di altri problemi più importanti per la vita delle donne?”.

Già ai tempi di Alma Sabatini questa accusa era dietro l’angolo e lei rispondeva così: “Altro argomento contrario alla proposta di riforma linguistica è che la questione è di poca rilevanza, che vi sono cose più importanti per cui lottare, e per le quali quindi si devono serbare le energie. Anzitutto c’è alla base di questo argomento un concetto errato di energie, che parte da un principio di “scarsezza”: al contrario energie producono energie, se non si perde di vista la globalità della questione”.

“Sostenere che medica o ministra siano neologismi errati o cacofonici è allo stesso livello delle teorie sulla piattezza della terra”, scrive Giuliana Giusti su AgenziaCULT. Eppure non tutti e tutte condividono questa battaglia. Solo pochi mesi fa, nel luglio 2022, il Senato ha bocciato l’emendamento presentato dalla senatrice Alessandra Maiorino (M5S) per introdurre nelle comunicazioni istituzionali del Senato anche l’uso dei femminili e scrivere ad esempio «i senatori e le senatrici» invece che il solo maschile esteso «i senatori». La votazione a scrutinio segreto ha raccolto 152 voti favorevoli, 60 contrari e 16 astenuti. Per passare ne sarebbero serviti 161 a favore.

Le resistenze ovviamente sorgono anche rispetto alla diffusione di soluzioni che nell’uso della lingua vadano oltre il binarismo di genere maschile/femminile. Negli anni sono stati e sono usati: l’asterisco, la u, la chiocciola, la x. Nel 2015 sul sito Italiano inclusivo è apparsa la proposta di usare lo schwa, un simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale che indica una vocale brevissima, in uso nelle comunità LGBTQIA+ e ripreso nel 2019 anche da Vera Gheno nel suo libro. Un simbolo che quando è apparso in un concorso bandito a febbraio 2022 dall’Università di Tor Vergata ha dato vita a una petizione “Lo schwa no grazie. Pro lingua nostra” firmata da alcuni intellettuali, a cui ha ribattuto Maurizio Decastri, ordinario di Organizzazione Aziendale presso l’Università di Roma Tor Vergata e autore e firmatario dei verbali di commissione menzionati nella petizione, che ha rimarcato come l’uso dello schwa era stato scelto “perché vuole parlare a e con una comunità universitaria aperta, inclusiva e collegata alle emergenti istanze sociali e di rappresentazione della diversità delle persone”, e che se lo schwa diventerà o meno un simbolo di uso comune “lo decideranno non un gruppo di intellettuali con le petizioni, ma la società che avanza, che sceglie a chi e cosa dare spazio e rappresentazione e, soprattutto, le giovani generazioni che leggeranno in quella ə un «disturbo molesto» o un’iniziativa di accoglienza e cambiamento”.

COSA POSSIAMO FARE?

È quindi importante che l’uso non sessista della lingua sia oggetto di ricerca e confronto anche acceso, come peraltro già accade. Perché è fuor di dubbio che essendo un elemento importante della cultura, un suo uso consapevole e non discriminatorio sia un modo concreto per riconoscere le differenze, nominandole. Non basta certo fare questo, ma farlo è un primo passo per lavorare sul senso comune, se si crede, come io credo, che sia una strada importante tanto quanto altri piani, per combattere le disuguaglianze.

Vera Gheno afferma che “tra realtà e lingua c’è una relazione bidirezionale: la realtà influisce sulla lingua, ma anche la lingua influisce sulla realtà. Nel momento in cui nominiamo con precisione qualcosa o qualcuno, possiamo parlarne, di conseguenza quel qualcosa o qualcuno assume più concretezza”.

E questo è stato vero come si ricorda su Valigia blu ad esempio per quanto riguarda la parola “femminicidio” che “non ha eliminato la violenza contro le donne, tuttavia ha permesso di aumentare la consapevolezza sul fenomeno, di farlo “vedere” meglio: di creare, attraverso la lingua, una finestra su un panorama di oppressione che altrimenti sarebbe stato più facile occultare (i “raptus” i “delitti passionali” e così via)”.

Al vedere meglio, che è già di per sé un obiettivo importantissimo, è possibile aggiungere anche altro. Ad esempio è ormai appurato, rispetto al rapporto tra la lingua che usiamo e la tecnologia, che gli algoritmi e i motori di ricerca sono influenzati da quello che digitiamo e quindi da come noi usiamo il linguaggio: se nei testi che finiscono nei database poi messi a disposizione degli algoritmi teniamo conto del linguaggio inclusivo contribuiremo a migliorare i sistemi di apprendimento automatico.

E se, come scrive Criado Perez citando uno studio “è più raro che le donne rispondano agli annunci e facciano bella figura nei colloqui per l’assunzione di figure professionali indicate con il maschile generico”, è plausibile pensare che usando un linguaggio attento al genere le cose potrebbero cambiare.

La domanda da farsi è quindi, cosa possiamo fare noi? Se è certamente vero che le finalità comunicative dei testi cambiano a seconda dell’argomento, di chi ascolta, del contesto di riferimento chiamandoci a cercare e trovare, volta per volta, le soluzioni più adatte, al tempo stesso la consapevolezza e la volontà di usare la lingua in un modo rispettoso delle differenze a noi più che ad altri e altre, come comunicatori e comunicatrici sociali, non dovrebbero mancare.

Come ricorda sempre Andrea Morniroli, che co-coordina il ForumDD, il lavoro sociale è un lavoro politico, il cui fine ultimo è il cambiamento verso un futuro di maggiore giustizia sociale e ambientale. In questo quadro, la lotta alle disuguaglianze di genere è una delle grandi dimensioni da affrontare. E se il linguaggio e l’uso che ne facciamo, possono essere un modo per costruire un futuro più giusto, come comunicatori e comunicatrici sociali siamo secondo me chiamate e chiamati a essere in prima linea nello sperimentare le diverse possibilità che la lingua ci propone, con un atteggiamento di apertura, di sana curiosità e di attenzione per quello che si muove all’interno della società.

*Questo articolo è una rielaborazione dell’intervento che Silvia Vaccaro ha tenuto al No Profit Women Camp il 4 marzo 2023 a Torino.

ABSTRACT

The topic of gender-inclusive language returns cyclically to the center of public debate, in order to discuss of equal opportunities between men and women. However, despite the studies and the many contributions, gender-inclusive language has not become the norm, even if it would instead be a concrete way to recognize the differences, naming them, as well as a first step to work on common sense, and therefore to fight inequalities. Social communicators should be aware of this, because they are called to experiment with the different possibilities that language offers, with an attitude of openness, curiosity and attention to what is happening within society.

 

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Silvia Vaccaro

Silvia Vaccaro cura dal 2018 la comunicazione del Forum Disuguaglianze e Diversità. Giornalista pubblicista, dal 2011 al 2016 ha collaborato con la rivista Noidonne per l’edizione mensile cartacea e per la versione on-line, scrivendo prevalentemente di diritti umani, attivismo femminista in Italia e all’estero, violenza di genere e iniziative culturali.

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