
Patrimonio culturale e sostenibilità
Nel recente dibattito sulla valorizzazione del patrimonio culturale si registra, specie per la pressione dell’ordinamento internazionale, un progressivo rafforzamento della relazione tra cultura e sviluppo sostenibile.
Da questa premessa deriva, tra le altre cose, una sempre più frequente applicazione degli istituti della rigenerazione e del riuso, anche come forme di valorizzazione del patrimonio culturale alternative, più sostenibili (sul piano economico) e più inclusive (su quello sociale).
In termini generali, si tratta di implicazioni di un fenomeno più ampio, relativo alla consistenza del patrimonio pubblico immobiliare, che versa in condizioni di abbandono ed alle ricadute in termini gestionali ed economici che ne derivano per le pubbliche amministrazioni.
Con specifico riguardo al patrimonio culturale, già alcuni anni fa l’ANCI osservava come, a fronte di interessanti sperimentazioni in ambito locale finalizzate al riuso di beni culturali in abbandono o sottoutilizzati ricadenti nel patrimonio degli enti locali, il quadro normativo di riferimento fosse frammentario e confuso, limitando di fatto l’azione delle amministrazioni locali.
Il riuso del patrimonio culturale: quale cornice normativa
In assenza di riferimenti espliciti agli istituti della rigenerazione e del riuso (se si escludono gli artt. 6 e 131 del Codice dei beni culturali che accennano però al tema della riqualificazione), occorre definire una cornice normativa, entro la quale inserire alcune significative sperimentazioni condotte in ambito locale realizzate per valorizzare il patrimonio culturale.
Per farlo, è necessario accennare brevemente ai principi generali che regolano il riuso del patrimonio pubblico, per poi verificare quali siano gli adattamenti che si impongono in ragione dell’interesse culturale di quel patrimonio.
La norma di riferimento in questo caso è l’art. 3-bis, d. l. 25 settembre 2001, n. 351, conv. in l. 23 novembre 2001, n. 410, che al co. 1 prevede che i beni immobili di proprietà dello Stato possono essere concessi o locati a privati, a titolo oneroso, ai fini della riqualificazione e riconversione, tramite interventi di recupero, restauro, ristrutturazione, anche con l’introduzione di nuove destinazioni d’uso finalizzate allo svolgimento di attività economiche o attività di servizio per i cittadini, ferme restando le disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio. I co. 4 e 5 contengono, poi, prescrizioni riguardo alle modalità di affidamento, ai termini e alla prelazione a favore del privato concessionario.
Nel quadro degli strumenti di valorizzazione dei beni culturali, l’istituto della concessione (che il Codice dei beni culturali associa all’alienazione di cui all’art. 55) è disciplinato dall’art. 57 bis.
La norma stabilisce, infatti, che “le disposizioni di cui agli articoli 54, 55 e 56 si applicano ad ogni procedura di dismissione o di valorizzazione e utilizzazione, anche a fini economici, di beni immobili pubblici di interesse culturale […] attuata rispettivamente, mediante l’alienazione ovvero la concessione in uso o la locazione degli immobili medesimi”.
Le disposizioni generali in materia di patrimonio pubblico sono dunque improntate al principio che impone alle pubbliche amministrazioni di gestire il proprio patrimonio secondo i canoni dell’efficienza e dell’economicità (art. 97) analogamente a quelle del Codice dei beni culturali in materia di valorizzazione.
Il principio in questione, utilizzato come parametro principale di verifica della legittimità degli affidamenti in concessione del patrimonio pubblico, è stato tuttavia mitigato dalla giurisprudenza contabile, che ha previsto deroghe specifiche sostanzialmente riconducibili a due aspetti: la natura non lucrativa del soggetto gestore (che ottiene il bene a canone agevolato o gratuitamente); la soddisfazione di un interesse pubblico equiparato o superiore a quello dell’economicità dell’azione amministrativa (art. 97 cost.).
Secondo un’impostazione innovativa di una parte della giurisprudenza amministrativa, tuttavia, “l’Amministrazione non sarebbe tenuta ad attuare una procedura comparativa, quando l’organizzazione a cui affidare il bene si fa carico di un’attività che presenti un interesse per la collettività, per tutelare il quale l’Amministrazione stessa ha dichiarato di volersi impegnare. Un ragionamento contrario sarebbe d’altronde illogico e significherebbe affermare che l’ente non può esercitare il potere discrezionale per destinare dei beni ad un utilizzo coerente con le proprie finalità, ma dovrebbe invece compiere una scelta basandosi solo sulla maggiore convenienza economica di una proposta rispetto ad un’altra”.
Da queste premesse deve dedursi una diversa interpretazione dei presupposti e delle implicazioni derivanti dal ricorso all’istituto della concessione dei beni culturali. A prescindere dallo strumento di valorizzazione prescelto dall’amministrazione occorre verificare se il bene oggetto della procedura presenti o meno un valore economico e quale sia l’interesse generale perseguibile attraverso la concessione e la natura giuridica del concessionario. Si eviterebbe, in questo modo, il rischio che le prescrizioni imposte dalle norme e la natura scarsamente remunerativa di alcuni beni disincentivino di fatto l’intervento del privato (anche non profit).
Quello che si sostiene, insomma, è che il principio di redditività del patrimonio culturale pubblico andrebbe reinterpretato in considerazione delle caratteristiche, dello stato di alcuni beni e della natura giuridica dei soggetti incaricati della valorizzazione, stante la rilevanza dei valori identitari e della coesione sociale, che sono associati ai processi di recupero e valorizzazione dei beni culturali in disuso o abbandonati (c.d. socializzazione dei beni culturali).
A ben guardare, però, le norme del Codice dei beni culturali in materia di valorizzazione risentono del tentativo di uniformare strumenti e procedure, che mal si accorda, da un lato, alla strutturale atipicità della valorizzazione che il Codice stesso sembra accogliere nei principi generali (art. 6) e, dall’altro, al carattere eterogeneo dei beni che compongono il patrimonio culturale.
Il patrimonio culturale delle aree interne: elementi di specialità e valorizzazione “su misura”
Ciò evidentemente, vale a maggior ragione per il patrimonio culturale delle aree interne in ragione degli elementi di specialità che lo compongono.
I dati raccolti dall’Istat mostrano una significativa rilevanza quantitativa e qualitativa di questo patrimonio. Anche i comuni con meno di 2mila abitanti, (il 17,1% del totale) contano da due a cinque tra musei e istituti similari. Il 40,0% dei musei italiani risulta infatti localizzato in aree costituite da Comuni “intermedi”, “periferici” e “ultra periferici” (https://www.istat.it/it/files//2019/12/LItalia-dei-musei_2018.pdf). Benché rilevante, questo patrimonio è spesso non accessibile per carenza di risorse che consentano una regolare e continuativa apertura dei luoghi della cultura nelle aree interne. Per altro verso, molti dei comuni inclusi in aree SNAI presentano borghi storici di rilevante interesse culturale, che però versano spesso in condizioni di degrado e di abbandono (per l’assenza di idonee attività di tutela e soprattutto di valorizzazione). Non a caso, vi è una corrispondenza molto chiara tra le aree interne (del centro Italia) e le aree colpite dal sisma del 2016.
Un simile patrimonio, proprio in ragione delle condizioni di degrado e scarsa fruibilità in cui versa, richiede soluzioni ad hoc, in grado di assecondarne e valorizzarne le caratteristiche distintive. Su questo, però, la disciplina di settore (d.lgs. n. 42/2004, Codice dei beni culturali) risulta carente.
Il riuso “oltre” il perimetro del Codice dei beni culturali
Occorre dunque verificare l’esistenza di norme e strumenti idonei allo scopo diversi e ulteriori rispetto a quelli disciplinati dal Codice dei beni culturali.
Una maggiore attenzione da parte del legislatore al tema della differenziazione degli strumenti di valorizzazione (in ragione delle caratteristiche dell’oggetto della valorizzazione e dei soggetti coinvolti) si coglie infatti in diversi testi normativi.
Relativamente allo strumento del riuso, l’art. 71, co. 2 del Codice del Terzo settore prevede, ad esempio, che lo Stato, le Regioni e Province autonome e gli Enti locali possano concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, agli enti del Terzo settore, per una durata massima di trent’anni, nel corso dei quali l’ente concessionario ha l’onere di effettuare sull’immobile, a proprie spese, gli interventi di manutenzione e gli altri interventi necessari.
In riferimento ai beni culturali, poi, il co. 3 prevede che i beni culturali immobili di proprietà dello Stato, delle regioni, degli enti locali e degli altri enti pubblici, (per l’uso dei quali attualmente non è corrisposto alcun canone e che richiedono interventi di restauro), possono essere dati in concessione ad enti del terzo settore con pagamento di un canone agevolato, determinato dalle amministrazioni interessate, ai fini della riqualificazione e riconversione dei medesimi beni tramite interventi di recupero, restauro, ristrutturazione a spese del concessionario, anche con l’introduzione di nuove destinazioni d’uso finalizzate allo svolgimento delle attività indicate. La concessione d’uso, prosegue la norma, è finalizzata alla realizzazione di un progetto di gestione del bene che ne assicuri la corretta conservazione, nonché l’apertura alla pubblica fruizione e la migliore valorizzazione.
La disposizione citata offre, dunque, una soluzione per le ipotesi in cui il bene sia inutilizzato (se si interpreta in questo senso la circostanza dell’assenza del pagamento di un canone, indicata al co. 3) e degradato (in considerazione del fatto che il concessionario si farà carico di interventi di riqualificazione e restauro), consentendo una concessione d’uso a canone agevolato per la realizzazione di un progetto di valorizzazione del bene.
Sempre a norma del co. 3, l’individuazione del concessionario avviene mediante le procedure semplificate di cui all’articolo 151, comma 3 del Codice dei contratti pubblici (sulle forme speciali di partenariato pubblico privato).
Come si vede, allora, l’art. 71 individua un modello concessorio che sfugge all’applicazione delle procedure ordinarie di individuazione del concessionario al verificarsi di tre presupposti: la natura giuridica del soggetto (ente del terzo settore) e le caratteristiche del bene (non direttamente redditizio e/o eventualmente degradato) e l’interesse generale perseguito (miglioramento della fruizione del bene).
Si codificano, in questo modo, le deroghe ammesse dalla giurisprudenza sopra richiamata in tema di concessione di beni pubblici, individuando un regime giuridico applicabile alle ipotesi di riuso e di rigenerazione con finalità di valorizzazione del patrimonio culturale in disuso o degradato, come quello delle aree interne.
Nello stesso senso, depone il co. 17 dell’art. 89, Codice del Terzo settore, a norma del quale, “in attuazione dell’articolo 115 del Codice dei beni culturali, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, le regioni, gli enti locali e gli altri enti pubblici possono attivare forme speciali di partenariato con enti del Terzo settore, individuati attraverso le procedure semplificate di cui all’articolo 151, comma 3, dirette alla prestazione di attività di valorizzazione di beni culturali immobili di appartenenza pubblica”.
Oltre che nelle norme generali in materia di concessione di immobili pubblici (culturali e non) i progetti per il riuso del patrimonio culturale trovano un ulteriore riferimento normativo nell’art. 190 del Codice dei contratti pubblici in tema di baratto amministrativo e nei patti complessi per la rigenerazione ed il riuso del patrimonio pubblico, disciplinati dai regolamenti locali sull’amministrazione condivisa dei beni comuni.
Anche in ambito regionale si conferma una crescente attenzione da parte del legislatore a queste tematiche (tra le altre: l.r. Marche n. 29/2021; l.r. Emilia Romagna n. 24/2017, l.r. Emilia Romagna n.3/2003; l.r. Toscana n. 73/2005).
Esperienze in corso e prospettive
Le esperienze in corso cominciano ad essere numerose e significative (solo a titolo esemplificativo: https://www.casermarcheologica.it/; https://www.fondazioneconilsud.it/bando/bando-storico-artistico-culturale-2017/; https://meltingpro.org/progetti/nazionali/invasioni-contemporanee/; https://www.sciacca5sensi.it/) . Come detto, gli interventi per il riuso e la rigenerazione urbana, specie quelli su base culturale, non sono riconducibili a norme giuridiche specifiche, richiamandosi ad istituti disciplinati in contesti normativi differenti (fonti primarie o regolamenti locali) o anche direttamente sperimentati nella prassi. Essi presentano però caratteristiche comuni e ricorrenti: la cooperazione pubblico-privato; l’attivazione dei processi dal basso (bottom up), attraverso il coinvolgimento delle comunità di riferimento (community engagement) di beni comuni; la finalità (miglioramento della qualità della vita della collettività).
A fronte dei potenziali effetti positivi, però, l’applicazione degli istituti considerati, proprio nelle aree interne, incontra ancora alcune difficoltà. Oltre alle incertezze dettate da un quadro normativo non sufficientemente definito, la non soddisfacente qualità delle istituzioni locali e l’insufficienza dimensionale delle strutture pubbliche chiamate a coordinare le procedure amministrative, vi sono alcune difficoltà di tipo culturale (lo spopolamento, il calo demografico, l’età anagrafica, che fotografano comunità “anziane”, il cui coinvolgimento nei processi di riuso e rigenerazione appare più complesso). In assenza di un coinvolgimento delle istituzioni locali (possibilmente in partnership con i privati) radicato e credibile nel tempo e di una maggiore consapevolezza delle comunità di riferimento, la tenuta e l’efficacia dei progetti nel medio e lungo periodo rischiano di risentirne.
Al netto delle difficoltà richiamate, che impongono attenzione da parte degli studiosi e degli operatori, il riuso del patrimonio culturale si candida, insomma, a rappresentare, una delle vie percorribili per una valorizzazione “su misura” del patrimonio culturale delle aree interne.
ABSTRACT
The essay aims to verify whether, and under what conditions, the application of the circular economy (and of the cultural heritage reuse) can contribute to a more sustainable enhancement of cultural heritage and whether benefits for the development of these territories can derive from this. The first part of the work is dedicated to the relationship between cultural heritage and sustainability in the multilevel system. In the central part of the work, the discipline of the enhancement of the cultural heritage of the internal areas is analyzed to highlight the reasons for their speciality, with particular regard to the themes of reuse and regeneration. The thesis that we intend to demonstrate is that (concerning the cultural heritage of the internal areas), a revision of enhancement tools is necessary through the reference to the principles of the international legal system and to legal tools outlined outside the Code of cultural heritage, which show an ever more explicit affirmation of the tools of reuse and regeneration also about cultural heritage.