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LETTURE LENTE - rubrica mensile di approfondimento
Dopo anni di attesa di una legge quadro sulle imprese culturali e creative, governo e parlamento avviano una serie di iniziative che lasciano ben sperare, ma suscitano preoccupazioni sulla procedura
© Foto di Egor Myznik su Unsplash

È ormai da molti anni che le organizzazioni rappresentative delle diverse componenti del settore culturale riflettono sulla regolamentazione di un complesso di attività imprenditoriali che è ancora privo di riconoscimenti normativi.

Parliamo di almeno 179.000 aziende, secondo l’ultimo rapporto Eurostat, relativo al 2019, che pone l’Italia al primo posto in Europa, seguita dalla Francia con 165.000 e dalla Germania con 125.000; secondo la stessa fonte gli addetti in Italia sarebbero 831.000.

Il condizionale è tuttavia d’obbligo, in quanto i criteri di rilevazione appaiono incerti, in mancanza di definizioni univoche e strumenti aggiornati per la identificazione dei soggetti censiti.

Anche per quanto riguarda l’incidenza sul Pil delle attività culturali esistono stime incerte ma che configurano questo come un segmento importante della nostra economia: nel migliore dei casi si misurano gli aspetti finanziari diretti, mentre sull’indotto è possibile formulare solo ipotesi, senza contare che l’ambiente culturale e artistico italiano conferisce a intere filiere produttive un valore aggiunto di fascinazione e una garanzia di qualità.

Ma vi è un’altra componente che caratterizza le attività che ruotano intorno alla cultura: il loro valore sociale, in termini di formazione, di consapevolezza, di coesione. È questa specificità che richiede, più che in altri settori, il riconoscimento di uno status particolare, quella che ci piace definire l’“eccezione culturale”.

LA NECESSITÀ DI FARE CHIAREZZA

Certo non è facile tracciare un confine netto per delimitare il territorio in cui includere aziende e professioni di un settore estremamente complesso e ricco di competenze molto diverse. Però i ragionamenti che hanno visto impegnati in questi anni gli operatori del settore hanno portato a una definizione sufficientemente chiara di una possibile tassonomia e alla individuazione dei vulnus del quadro normativo vigente. Del resto la crisi dovuta alla pandemia ha mostrato in maniera evidente che i soggetti che concorrono alla gestione e al confezionamento di un prodotto culturale compongono delle filiere che sfuggono spesso alle tradizionali ricognizioni.

La nascita e la crescita di soggetti destinati alla gestione di beni culturali e alla produzione di servizi a supporto della produzione e della fruizione è avvenuta in maniera rapida e, spesso, nell’incertezza normativa. A partire dagli anni Novanta, sono state create strutture con i più disparati profili giuridici (fondazioni di partecipazione, aziende speciali, società in house) per quanto riguarda la parte pubblica, a cui si aggiungono quelle totalmente private (società di capitali, di persone, cooperative, studi professionali). Le nuove esigenze legate all’innovazione tecnologica producono poi l’emergere di una infinità di nuovi profili professionali, ignoti alle tradizionali catalogazioni. Questo complesso universo è stato investito da una produzione legislativa di carattere generale che ha inciso fortemente sull’operatività, senza però tenere conto della specificità di tali soggetti. Basti citare gli interventi per la spending review, il codice degli appalti, il codice dei beni culturali, fino ai provvedimenti di sostegno per i danni subiti dalla pandemia. Questa situazione ha prodotto incertezze nell’interpretazione delle norme, vuoti nella identificazione dei destinatari, disparità di trattamenti. Da ciò l’esigenza di arrivare presto a mettere ordine nel comparto, con l’individuazione di strumenti aggiornati di catalogazione e un ordinamento unitario e chiaro della materia.

Mentre il dibattito su questo tema ha fatto molti progressi, l’attenzione del legislatore si era però fermata alla legge finanziaria del 2017, che introduceva per la prima volta nell’ordinamento la dicitura “impresa culturale e creativa”, rimandando a successivi provvedimenti attuativi la individuazione di norme ad hoc. A questo era seguito soltanto un decreto del Ministero dello Sviluppo Economico che, pur senza fare progressi sul piano normativo, stanziava un fondo di 40 milioni di euro a favore delle ICC, rafforzando se non altro il riconoscimento delle imprese nel lessico giuridico. Va detto però che il conseguente decreto attuativo si è basato in maniera acritica su un elenco di soggetti individuati in base alla codificazione Ateco, che rappresenta, come vedremo più avanti, il principale scoglio da superare per consentire un vero progresso nella direzione che qui ci sta a cuore.

IL 2023 SARÀ L’ANNO DECISIVO?

L’anno in corso ha registrato invece un salto in avanti, con una serie di azioni da parte del Parlamento e del Governo che fanno intravedere un imminente cambiamento radicale nella sistemazione dell’intero settore.

Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.

Presso la Commissione Cultura della Camera è stata depositata il 16 gennaio scorso un’articolata proposta di legge, con primo firmatario l’on. Matteo Orfini, in base alla quale la presidenza della commissione ha già calendarizzato i lavori e svolto le prime audizioni, con l’obiettivo di arrivare entro l’anno alla trasmissione all’aula di una proposta di legge unificata. In parallelo il sen. Mario Occhiuto ha depositato, il 4 aprile, una propria proposta di legge presso la commissione cultura del Senato, di cui lui stesso è segretario.

Le due proposte tengono in vario modo conto dei materiali di approfondimento prodotti dalle organizzazioni di categoria e sono in buona parte sovrapponibili. Costituiscono entrambi un eccellente punto di partenza per arrivare ad un testo completo e condiviso. Tuttavia vi è un delicato nodo procedurale da sciogliere: quale dei due rami del parlamento prevarrà? In base ai regolamenti dovrebbe essere quello che ha iniziato per primo la procedura, ossia la Camera dei Deputati, ma ha allora senso che si proceda in parallelo piuttosto che definire una procedura unificata, magari solo sul piano della consultazione informale, in maniera che si arrivi ad una proposta che non generi sorprese in sede di discussione in aula?

Come se questo non bastasse è poi intervenuto un altro fatto inatteso: Il Ministero dello Sviluppo, oggi Mimit, ha emanato un DDL (pubblicato il 30 maggio), il cosiddetto Decreto Made in Italy, che include alcuni articoli che individuano e regolano il settore delle ICC. Il provvedimento è stato licenziato senza consultare le competenti commissioni parlamentari né, tantomeno, le organizzazioni di categoria, ponendo così un vincolo pregiudiziale sulle procedure legislative in corso da parte del Parlamento.

QUALI SONO I CONTENUTI DEI TRE PROGETTI?

Un elemento comune alle tre proposte è la definizione delle ICC, sia pure con criteri non perfettamente allineati sulla loro individuazione e con qualche aspetto da dettagliare per evitare rischi di interpretazioni dissonanti in fase di attuazione.

La cosa importante, però, è che si arrivi ad una considerazione omogenea delle varie componenti imprenditoriali e professionali che concorrono alla realizzazione di prodotti culturali, includendo le categorie oggi non censite se non addirittura invisibili e ponendo, sull’altro lato, un limite rispetto ai settori tipicamente industriali, che rispondono a logiche e regole di mercato diverse.

Altra indicazione presente è quella relativa all’esigenza di un organismo di coordinamento e supporto alle attività: nella proposta Occhiuto è prevista, ad esempio, la costituzione di un’agenzia.

Diverse sono le indicazioni rispetto alle risorse messe a disposizione per sostenere il settore, tema delicato che comporta dei rischi in ordine alle coperture di bilancio e che meriterebbe un’attenzione maggiore su esigenze e competenze piuttosto che sulla indicazione di cifre.

Il tema più delicato appare però quello della codificazione. Come si è detto uno dei problemi più seri da risolvere è quello rappresentato dai codici Ateco, desunti da una normativa europea troppo rigida e desueta.

Le tre proposte accolgono la richiesta di istituire un apposito registro presso le Camere di Commercio, attraverso un sistema di autocertificazione. Quello che a noi appare invece problematico è la previsione di un albo, gestito in parallelo dal MiC, come previsto nel solo DDL Made in Italy, istituto che genera perplessità e determina un evidente conflitto con le proposte di iniziativa parlamentare.

OPPORTUNITÀ E RISCHI DELLE PROCEDURE AVVIATE

Comunque non possiamo che salutare con soddisfazione questa stagione di inedito attivismo su un tema che sollecitiamo da sempre e siamo certi che porterà a risultati importanti, in tempi ragionevolmente brevi. Ma non possiamo nascondere la preoccupazione per l’imbuto istituzionale che si va configurando: con ogni probabilità il parlamento sarà chiamato ad approvare il DDL del Mimit prima che le commissioni abbiano compiuto l’iter per il deposito delle proprie proposte; a quel punto come si comporteranno i parlamentari che dovranno confrontarsi con un testo che registra differenze non marginali rispetto alle proposte di legge di iniziativa parlamentare? Si potrà intervenire con emendamenti sul testo proposto dal governo? Ma interventi semplicemente correttivi comportano molti rischi riguardo ad un provvedimento che necessita di una sua organicità e le cui componenti sono strettamente interconnesse.

Non crediamo che ci si possa accontentare di una legge pur che sia, da migliorare magari in via di attuazione; sappiamo bene come vanno queste cose in Italia e sappiamo anche che gli equilibri (o i disequilibri) si stabiliscono agli inizi e non è più possibile correggerne gli effetti se non con insopportabili costi di efficacia.

Si è provato, con una iniziativa promossa da Federculture nel luglio scorso, a far parlare tra loro le quattro istituzioni (Mimit, MiC, Camera e Senato) che stanno legiferando in maniera autonoma e scoordinata, aggiungendo un quarto interlocutore che è investito da ognuna delle proposte senza essere stato minimamente incluso nel processo di formazione dei provvedimenti: il Sistema Camerale al quale ognuno dei progetti affida il compito di istituire e gestire un registro delle ICC che baypassi i famigerati codici Ateco.

Ora però sono i protagonisti formali di questa vicenda a dover individuare la sede istituzionale in cui comporre il groviglio che si è creato, per evitare che decisioni affrettate, se non addirittura conflitti, compromettano un risultato che è ormai a portata di mano. Per dirla tutta, sembra che la soluzione più logica sia quella di ritirare i quattro articoli del DDL Made in Italy e arrivare a una proposta di iniziativa parlamentare che unifichi sia la procedura che, cosa ancora più importante, i contenuti di un provvedimento destinato a cambiare la concezione stessa del management culturale in Italia.

ABSTRACT

Italy currently lacks regulations to recognize and regulate entrepreneurial activities in the field of culture. After a long wait, 2023 finally saw a sudden involvement of the Government and Parliament. Bills for the recognition and regulation of “cultural and creative enterprises” have been presented both in the House of Representatives and in the Senate. The Government simultaneously drafted its bill on Made in Italy, which also included the regulation of CCI. This sudden attention on the matter is optimistic, however parallel interventions may result in institutional bottlenecking. These institutions must urgently come together to produce a unitary proposal that is approved by trade associations.

 

 

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Umberto Croppi

Umberto Croppi

Umberto Croppi. Direttore generale presso Federculture. Consulente per la comunicazione e il management culturale, è Presidente della Quadriennale di Roma. È stato Direttore Generale della Fondazione Valore Italia. Dal 2000 al 2005 Direttore editoriale e A.D. della casa editrice Vallecchi Spa e Direttore artistico della galleria BZF di Firenze. Dal 1996 al 2000 Presidente della casa editrice Officine del Novecento Spa, Firenze. Dal 2015 docente presso il Master “Management, promozione, innovazioni tecnologiche nella gestione dei beni culturali”, Dip. di Studi Aziendali, Università di Roma3, inoltre docente a contratto per il corso “Organizzazione degli eventi”, Facoltà di Scienze della Comunicazione, La Sapienza di Roma. Dal maggio 2008 al gennaio 2011 Assessore alle Politiche Culturali, Comunicazione e Moda del Comune di Roma. Nel 2012, per Newton Compton, ha pubblicato il volume Romanzo comunale. È autore di numerosi saggi, coautore di volumi collettanei, tra i quali: Il pregiudizio universale (Laterza, 2016), Un Maestro a Pietralata (Feltrinelli, 2012), Unicità d’Italia (Marsilio, 2011), Disegno e Design (Marsilio, 2010), (Re)design del territorio (Valore Italia, 2009).

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