skip to Main Content
LETTURE LENTE - rubrica mensile di approfondimento
La ricerca restituisce le politiche e le buone pratiche partecipative che emergono dalla realtà italiana, mettendo in luce sia quali sono le comunità nella loro composizione e ruolo, sia le forme di gestione del patrimonio culturale
© Foto di Annie Spratt su Unsplash

INTRODUZIONE

La ricerca “La partecipazione alla gestione del patrimonio culturale: politiche, pratiche ed esperienze” – realizzata dalla Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali e in corso di pubblicazione – è stata progettata e realizzata nel biennio 2021/2022 e presentata a Roma il 4 maggio 2023. Lo scopo della ricerca è stato quello di comprendere l’impatto che le comunità di patrimonio, ossia i cittadini in maniera informale o organizzata, hanno sulla gestione e valorizzazione dei beni culturali pubblici e privati nell’ottica proposta dalla Convenzione di Faro, la quale pur nascendo già nel 2005 nella città portoghese, è entrata in vigore in Europa nel 2011, ed è stata ratificata in Italia nel 2020. La Convenzione di Faro è una “convenzione quadro” che definisce gli obiettivi generali e i possibili campi di intervento che i diversi Stati Membri Europei che hanno aderito alla Convenzione medesima possono mettere in campo allo scopo di salvaguardare il patrimonio culturale in relazione alla sua importanza per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, della democrazia e dello Stato di diritto, che costituiscono la loro eredità comune. Come la ricerca della Fondazione mette in luce, ciò che ribadisce la Convenzione di Faro non è esclusivamente il “diritto del patrimonio culturale”, quanto più “il diritto al patrimonio culturale”, allargando, pertanto la prospettiva alle responsabilità che hanno le comunità di patrimonio, rispetto alla partecipazione, alla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culturale. La ricerca della Fondazione, realizzata a ridosso della ratifica italiana, restituisce pertanto le politiche e le buone pratiche partecipative che emergono dalla realtà italiana, mettendo in luce sia quali sono le comunità nella loro composizione e ruolo, sia le forme di gestione del patrimonio culturale.

COSA SONO LE COMUNITÀ DI PATRIMONIO: LE ESPERIENZE, LE BUONE PRATICHE

La ricerca in primis definisce il concetto di comunità: “per comunità s’intende un insieme di persone unite dagli stessi valori e interessi, associate formalmente o informalmente, che attribuiscono valore a tratti particolari e identificativi del patrimonio culturale, che si ritengono rilevanti e che si impegnano, nel quadro di un’azione pubblica, a sostenere e trasmettere i contenuti e le espressioni patrimoniali alle generazioni future. L’appartenenza a una comunità è pertanto connessa al fatto che le persone che ne fanno parte riconoscano un valore al patrimonio culturale che esse stesse hanno contribuito a far conoscere e salvaguardare”.

Sulla base di questa definizione, la Fondazione ha costruito una fotografia della realtà italiana, mappando e analizzando quelle comunità di patrimonio che consapevolmente o meno stavano attivandosi nell’alveo e nella prospettiva della Convenzione di Faro. La mappatura realizzata dalla Fondazione è la prima ricerca esplorativa sulle comunità di patrimonio in Italia, perché non esistono fonti ufficiali o anagrafiche.

Dal punto di vista metodologico l’attività di ricerca si è realizzata attraverso una call for action, denominata “La Mappa delle comunità: esperienze di partecipazione”, promossa attraverso i social della Fondazione, la segnalazione a gruppi Facebook che si occupano di partecipazione, nonché la newsletter mensile della Fondazione. La call for action ha consentito di invitare le comunità a compilare un breve questionario, riguardante i dati essenziali della comunità e dei beni da loro gestiti. Alla call for action hanno risposto 260 comunità che costituiscono l’universo di riferimento. A seguire, la Fondazione ha selezionato le comunità che presentavano le caratteristiche individuate nella definizione prima riportata. A queste comunità è stato chiesto di approfondire le loro attività invitandole a compilare la seconda parte del questionario: in questo modo si è composto un campione auto selezionato composto da 117 casi. Per la somministrazione del questionario, sono state elaborate due schede. La prima descrittiva delle 260 comunità che hanno risposto alla call for action, la seconda rivolta al campione di 117 comunità auto selezionate e relativa a tre ambiti: le esperienze di partecipazione alla gestione di beni culturali, le relazioni delle comunità con le istituzioni o i soggetti proprietari dei beni e con i territori, e le competenze e i dispositivi che hanno permesso di generare le buone pratiche nonché di evidenziare le eventuali criticità in essere. Al fine di validare metodologicamente il percorso intrapreso si è costituito un comitato direttivo composto da esperti nazionali negli ambiti della partecipazione, valorizzazione e catalogazione dei beni patrimoniali. Oltre alla mappatura e contestualmente ad essa, la Fondazione ha così realizzato una ricerca di natura qualitativa, utilizzando il metodo Delphi, attraverso la quale è stato possibile redigere il glossario dei temi chiave per la ricerca: la comunità, l’innovazione sociale e culturale, e le competenze. Infine, sono stati organizzati dei focus group on line tra comunità allo scopo di confrontare diverse realtà e di identificare differenti punti di vista su temi specifici, per comprendere meglio le questioni problematiche delle comunità.

Il primo dato che emerge dall’indagine riguarda le forme organizzativa delle comunità di patrimonio, aggregate nella tabella che segue [1].

Tab. 1. Tipologia di soggetto giuridico (in percentuale) sulle 260 comunità

Associazione Comitato Cooperativa Fondazione Ente pubblico Impresa Nessuno
48,1 % 2,7% 10,4% 7,7% 15% 8,8% 5

Il dato più interessante riguarda l’incidenza delle associazioni di volontariato che ci segnala come questa forma prevalga sulle altre, seguono gli enti pubblici, le cooperative e le fondazioni. Le comunità per il 40% si collocano nel sud Italia e nelle isole, dove sono collocate la maggior parte delle associazioni. In particolare, in Puglia e in Sicilia, regioni nelle quali vengono erogati maggiormente finanziamenti pubblici. Dall’elaborazione dei dati è emerso che il 61% del campione di comunità ingaggiate nella ricerca ha ricevuto finanziamenti negli ultimi 10 anni. La maggior parte dei fondi erogati provengono dal settore pubblico e risultano essere compresi tra i 5000 e i 10.000 euro, nonostante molte comunità risultino altresì finanziate, sempre dal settore pubblico, con fondi anche superiori ai 50.000 euro; in questo caso si tratta, dunque, di cospicue somme di denaro che potrebbero essere utilizzate anche per lavori di impegno maggiore, come ristrutturazioni e/o progetti di lungo corso. Un altro settore molto attivo nello stanziamento di fondi per le realtà comunitarie è il privato sociale che elargisce finanziamenti pari per lo più a somme di denaro comprese tra i 10.000 e i 50.000 euro.

Si tratta di realtà nate a partire dal 2000, con dei picchi nel 2010 e nel 2015, che vivono prevalentemente attraverso il lavoro volontario dei partecipanti. È interessante notare come queste comunità, attraverso le loro azioni, abbiano compreso quanto la partecipazione, gestione e valorizzazione dei beni culturali impattino sul territorio. Si tratta soprattutto di un impatto di tipo sociale e culturale, a cui segue la dimensione educativa, mentre marginale è l’impatto economico. È tuttavia importante sottolineare come solo il 31,6% delle comunità che compongono il campione ha effettivamente misurato tale impatto. Sono comunità che adottano un approccio di tipo collaborativo con altre realtà del territorio e anche a livello europeo. Gran parte delle comunità non sanno di essere comunità di patrimonio nel senso inteso dalla Convezione di Faro, ma di fatto operano in linea con i principi e i tratti che caratterizzano le comunità di patrimonio. Infatti, solo il 52,14% sente di essere una comunità di patrimonio mentre il 47% non si riconosce in questa definizione.

Rispetto alla gestione del patrimonio, emerge un quadro composito. Nel complesso, le comunità svolgono generalmente attività di valorizzazione del bene (il 53% delle 260 comunità censite) più che di conservazione (32%). Per quanto attiene l’oggetto della gestione, si tratta prevalentemente di patrimonio architettonico tutelato, ovvero edifici e spazi in cui si promuovono e realizzano le attività. Dai dati raccolti risulta, infatti, che il patrimonio architettonico è quasi la metà (41,4%) del patrimonio presente tra i beni gestiti dalle 260 comunità che hanno partecipato alla ricerca. Dalla ricerca emerge, inoltre, che gli atti con cui vengono dati in gestione i beni sono di natura pubblica: il 22,29% riguarda i patti di collaborazione, il 18,47% le concessioni, il 5,1% il riconoscimento di uso civico, il 9,55% altri patti pubblici, a cui si aggiunge anche il comodato d’uso che non necessariamente deve essere solo di natura privata. Si rileva pertanto che lo strumento giuridico dei patti di collaborazione, che si ascrivono all’idea di amministrazione condivisa, sia lo strumento più utilizzato per gestire un bene culturale.

La ricerca evidenzia anche alcune criticità. Il non avere la certezza dei finanziamenti, la difficoltà che si percepisce rispetto alla ricerca degli stessi, così come il promuovere attività prevalentemente basate sul volontariato. Gli intervistati hanno, infatti, sottolineato come le comunità debbano di volta in volta dover formare gli operatori che collaborano con loro. Sono tutti elementi che inducono a riflettere sulla sostenibilità complessiva del lavoro promosso dalle comunità. Fondamentali sono poi le criticità inerenti le competenze: gli intervistati segnalano come manchino competenze nel campo della progettazione, ma anche di tipo amministrativo. Soprattutto, sarebbe necessario che i componenti le comunità acquisissero capacità orientate al community building e al management. Infine, la ricerca segnala un sentimento di solitudine percepito da parte di queste comunità di patrimonio nel portare avanti le loro azioni rispetto ai decisori e a chi si occupa di politiche culturali.

PROCESSI DI ABILITAZIONE DELL’INNOVAZIONE

Una lente interessante sotto cui indagare le esperienze di gestione dei beni da parte delle comunità consiste nel guardare a queste iniziative come potenziali dispositivi abilitanti processi di innovazione e trasformazione, in particolare se ci soffermiamo sui nuovi centri culturali ibridi. Non solo compiono un pieno passaggio dalla sola tutela alla valorizzazione e fruizione degli spazi, ma abilitano anche pratiche di innovazione culturale: sperimentano e rendono possibili nuove modalità di progettare, produrre, fruire e distribuire cultura, arte e creatività. Sono contesti multidisciplinari e indipendenti in cui si sperimentano linguaggi e si indaga il contemporaneo, si incrociano discipline artistiche differenti. Luoghi ibridi in cui la pratica culturale non ha paura di contaminarsi con altri settori: educazione e formazione, agricoltura, ristorazione, manifattura, coworking, etc. Se gli spazi culturali del ‘900 erano caratterizzati da un’unica funzione prevalente, i nuovi centri culturali fanno della multifunzionalità una propria specificità: pluralità di pubblici, pluralità di attività culturali (produzione, fruizione e aggregazione) e riconducibili ad altri ambiti, incrocio fra la dimensione sociale e culturale.

In molti di questi luoghi è difficile distinguere gli aspetti prettamente di innovazione culturale da quelli di innovazione sociale perché, anche attraverso la cultura, sperimentano un welfare generativo che dà risposte innovative a vecchi bisogni o fornisce soluzioni a quelli emergenti, innestando processi di sviluppo e di empowerment territoriale più ampi, basati su esercizi di immaginazione collettiva e pratiche culturali collaborative, percorsi di community organizing e creazione pensati per e con le persone. Attivano progetti orientati non solo all’output, ma enfatizzano il valore dei processi orientati al co- (coinvolgimento, co-progettazione, co-produzione, co-design, etc.), creando delle nuove piazze, luoghi dello stare insieme che favoriscono processi di apprendimento sociale e di presa di parola pubblica.

Le attività numerose e diversificate sono spesso rese possibili dalla collaborazione con altre organizzazioni del territorio. La capacità di governo delle partnership rappresenta un valore imprescindibile per arricchire palinsesti, flussi, servizi ed esperienze che con le sole forze del gestore non potrebbero essere realizzate. L’apertura alla cittadinanza, nonché alle altre realtà locali, rappresenta un discrimine affinché possano essere contesti in cui si genera innovazione sociale: devono restare spazi aperti e porosi verso l’esterno, al fine di evitare un uso privatistico del bene. I nuovi centri culturali attuano così alleanze e sperimentano partnership inedite, non sempre facili, fra pubblico/privato/terzo settore/cittadini per la rigenerazione come azione comune. La relazione continuativa sia con le istituzioni pubbliche locali sia con le comunità territoriali rende questi luoghi interessanti sotto il profilo dell’intermediazione sociale. Contribuiscono a generare e rigenerare le relazioni, con un orientamento al fare che è fare insieme, secondo un approccio simp-poietico direbbe Donna Haraway. Possiamo parlare di un’innovazione anche relazionale nella misura in cui la loro progettualità culturale e sociale sembra essere funzionale alla costruzione di nuovi legami con la città e con il territorio, costituisce l’elemento di ricostruzione di relazioni altrimenti destinate al dissolvimento.

Ci troviamo di fronte a un’infrastruttura culturale e sociale di prossimità sia materiale sia immateriale, a nuove istituzioni culturali liquide, rapide e adattive, capaci di innovazione continua. La sfida che si pone loro davanti è non restare singole eccezioni alle regole, buone pratiche isolate. La strada per il consolidamento e la risposta alla fragilità economica – che spesso le caratterizza – passa adesso da un impegno collettivo per generare processi di innovazione istituzionale e amministrativa che, riconosciuto il loro valore, siano in grado di favorirle e abilitarle.

NOTE

[1] I dati qui riportati sono quelli presentati nel convegno del 4 maggio 2023. La rilevazione è tutt’ora in corso. Si sottolinea altresì che l’articolo riporta solo alcuni dei dati di una ricerca molto estesa; per una lettura più approfondita si rinvia al report della Fondazione, che verrà pubblicato nei prossimi mesi.

BIBLIOGRAFIA

Franceschinelli R. (2021), Spazi del possibile. I nuovi luoghi della cultura e le opportunità della rigenerazione, Franco Angeli, Milano.

Haraway D. (2016), Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham (trad. it. Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2020).

Manzini E. (2018), Politiche del quotidiano, Edizioni di comunità, Roma-Ivrea.

ABSTRACT

This article describes the research “Participation in the Management of Cultural Heritage: Policies, Practices and Experiences” carried out by the Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali in the two-year period 2021/2022 and presented in Rome on 4 May 2023. The aim of the research was to understand the impact that heritage communities, citizens in an informal or organised way, have on the management and valorisation of public and private cultural assets in the perspective proposed by the Faro Convention, which although born in 2005 in the Portuguese city, came into force in Europe in 2011, and was ratified in Italy in 2020. The research returns a snapshot of the phenomenon in Italy. 260 heritage communities were surveyed through a call for action and 117 communities became the sample on which in-depth studies were carried out. This is the first cognitive research on the subject. The article describes their legal form, their territorial location, the forms of financing, the prevailing area of intervention and the governance model implemented. The article concludes with the reflections of Roberta Franceschinelli, who defines heritage communities as hybrid cultural centres, which not only make a full transition from the mere protection to the valorisation and enjoyment of spaces, but also enable cultural innovation practices: they experiment with and make possible new ways of working.

 

Roberta Franceschinelli si occupa di progetti di innovazione culturale e sociale, dal punto di vista delle policy, degli strumenti di erogazione e abilitazione. Negli ultimi anni si è specializzata in processi di rigenerazione comunitari di spazi culturali con un impatto sociale e civico. È program manager di Unipolis, la fondazione d’impresa del Gruppo Unipol e del Gruppo UnipolSai, per cui ha ideato e seguito il programma culturability, collabora ad alcuni progetti di ricerca, allo studio delle richieste di supporto e alla gestione delle relazioni esterne. È cofondatrice e presidente de Lo Stato dei Luoghi, rete nazionale di attivatori di luoghi e spazi rigenerati, che conta attualmente oltre cento fra organizzazioni e persone fisiche aderenti. Sui suoi ambiti di competenza, scrive pubblicazioni, tiene convegni e docenze. Di recente, ha pubblicato e promosso in giro per l’Italia il primo libro interamente curato da lei “Spazi del possibile. I nuovi luoghi della cultura e le opportunità della rigenerazione” (FrancoAngeli, 2021). Attualmente fa parte dello Steering Committee del progetto SI VALUTA per il Nuvap del Dipartimento per le Politiche di Coesione; in passato ha fatto parte del direttivo dell’associazione RENA.

Roberta Paltrinieri lavora presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, dove è Professoressa Ordinaria in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. Si occupa di Partecipazione, Sostenibilità, Politiche del consumo, Studio delle Audiences e Politiche culturali. È responsabile scientifico del progetto DAMSLab del Dipartimento delle Arti. È componente del Comitato scientifico del CRICC, Centro per l’Interazione con le Imprese Culturali e Creative, dell’Università di Bologna. È il responsabile scientifico del Corso di Alta Formazione in Innovatori Culturali dell’Università di Bologna dal 2021. È stata componente la commissione valutatrice del Bando Creative Living Lab 2018, MIBACT. Dal 2007 al 2012 è stata Componente del comitato scientifico di Culturability, progetto della Fondazione Unipolis, con cui collabora. Attualmente è componente del Comitato Direttivo della ricerca “Politiche, pratiche ed esperienze di partecipazione culturale, una valutazione comparativa” Fondazione Scuola Beni Attività Culturali, Roma. È risultata vincitrice del progetto PRIN – PNNR 2022, settore SH3, dal titolo “Cultural Welfare Ecosystems for Wellbeing: mapping, semantics and practicies, co-designing, tool and raising awareness” nel 2022. E dal 2020 ad oggi è il Principal Investigator del progetto Creative Europe “Performing Gender, Dancing in Your Shoes”.

 

 

Clicca qui e leggi gli altri articoli della sezione “RICERCHE PER LA CULTURA” di LETTURE LENTE

© AgenziaCULT - Riproduzione riservata

Back To Top