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LETTURE LENTE - rubrica mensile di approfondimento
Sussistono ancora grandi ostacoli verso la buona gestione della cultura ed alcuni sono comuni ad un tema molto attuale, quello della mancata semplificazione amministrativa che da decenni paralizza il Paese
© Foto di Mike Von su Unsplash

UNA GOVERNANCE SOSTENIBILE [1]

Come dovrebbe essere una buona governance del settore culturale lo ha detto in un modo mirabile la Commissione europea quando, nel 2017, lanciò l’anno della cultura 2018. Era la decisione UE 2017/864 che, con parole come sassi, diceva che il patrimonio in Europa era sottovalutato rispetto alle sue potenzialità di creare valore, competenze, occupazione e qualità della vita, perché mancava di governance sostenibile. Per governance sostenibile la Commissione intendeva “una governance partecipativa (vale a dire multilivello e fra diversi portatori di interessi) e una cooperazione intersettoriale rafforzata”. Da queste parole è desumibile la necessità di organizzare il sistema culturale abbattendo molti dei muri sorti tra le diverse discipline e soprattutto impegnandosi a guarire la grave frattura tra le città e il resto del territorio.

Aiuterebbe allo scopo superare la superficiale abitudine di pensare che la gestione dei beni culturali stia nel Ministero, ricordando il ruolo delle regioni e dei grandi comuni come altrettanto fondamentale, e soprattutto quanto siano importanti le aspettative dei piccoli comuni. Ministero e assessorati alla cultura sono legittimati a mantenere una posizione di guida se ritorna indiscussa la qualificazione eccellente dei funzionari, della dirigenza preparata ed efficiente. Tale qualificazione, che dovrebbe essere ovvia, è stata una delle glorie del passato italiano e si è poi indebolita con le livellanti norme da “funzione pubblica”, con lo stratificarsi incontrollato di personale di enti dismessi, progetti occupazionali di tipo assistenziale, per le irragionevoli carenze organiche, i troppi interim e i carichi di lavoro disumani oltre che per la troppo rara permeabilità a favore dei migliori di realtà private o di altre amministrazioni pubbliche.

IL CATALOGO DEGLI OSTACOLI

Il catalogo degli ostacoli al buon governo della cultura, delle malattie ormai croniche, potrebbe essere questo: uno statalismo spesso solo di facciata (e poi inattuabile) in luogo di un buon coordinamento centrale partecipato, un sistema contabile rimasto alle paure del primo dopoguerra, la selezione non trasparente di troppe dirigenze e organi gestionali, soprattutto nel settore dello spettacolo, le troppe norme che mantengono in vita l’arroganza gerarchica in luogo di una leadership empatica, opache relazioni sindacali, la mancanza di chiarezza nelle responsabilità (troppi collegi inutili, pareri e intese non necessarie, controlli doppi o tripli etc.), l’autoreferenzialità e la scarsa comunicazione tra le discipline, la pessima relazione con il privato, la scandalosa abitudine a pagare poco i professionisti della cultura, soprattutto la leva più preziosa per il Paese, quelli delle generazioni più giovani. Cercherò di spiegare meglio ai lettori queste malattie.

UN SISTEMA NAZIONALE CULTURALE

È evidente che per raggiungere una governance efficiente del sistema culturale non ci si può fermare a ricamare ulteriormente il codice dei beni culturali, ma servirebbe che il Parlamento finalmente si impegni per una normativa organica e non si faccia tirare la giacca per emanare ancora singole leggi di settore, una legge per il cinema, una per la fotografia, una per la musica, una per i musei, una per l’architettura e avanti senza fine a seconda delle pressioni e le mode del momento.

Il sistema museale nazionale, ad esempio, nacque da una norma che finalmente prese atto che non tutto quello che si coordina in modo centrale diviene statale, ma si può realizzare un sistema dal centro in maniera partecipata, proprio come auspica la Commissione europea. Si tratta di una buona pratica da estendere ad altri settori, finendola con il ragionare tra Stato, Regioni, Comuni e privati in termini di noi/loro.

Servirebbe quindi una legge organica che promuova un Sistema nazionale culturale tra tutti i soggetti in campo, un accordo per alcune regole di funzionamento buone per tutti: lo spettacolo dal vivo, il cinema, le forme di creatività contemporanea, il patrimonio immateriale e soprattutto il rapporto della mano pubblica con gli artisti viventi. Non si dovrebbe infatti mai dimenticare che quello che chiamiamo “patrimonio culturale” è in gran parte frutto del sedimentarsi nei secoli del lavoro di un lavoratore particolare, di una figura sociale importantissima, l’artista appunto, che da sempre è stato protetto dalla mano pubblica, una volta dai faraoni, principi, papi, cardinali e oggi dal sistema democratico.

L’ECCEZIONE CULTURALE

Poche regole buone per tutti dovrebbero poi finalmente aiutare gli operatori che si trovano a fare il mestiere del sostegno allo sviluppo culturale a risolvere il problema che lamentano in tutta Europa (e figuriamoci nell’Italia afflitta dalle sue troppe migliaia di norme): la difficoltà ad agire con tempestività. A tale scopo servirebbe quella che in diversi scritti ho chiamato “eccezione culturale”, un termine usato nella normativa europea per salvare il settore della cultura da alcune pesanti regole nate per tutelare la concorrenza. L’“eccezione culturale” è motivata dal fatto che chi opera nel settore culturale deve sapere gestire fattori di incertezza molto particolari: il lavoro degli artisti, la volatilità dei pubblici, le esigenze della tutela, la politica e la brevità dei mandati politici. Si opera in equilibrio e in perenne tensione, con antenne più estese e più alte e sarebbe realmente necessario risparmiare all’amministrazione della cultura i lacci burocratici standardizzanti e le procedure estenuanti, valide per uffici cha rilasciano e spediscono documenti, procedure che quando applicate nel settore culturale, rendono quasi sempre impossibili decisioni tempestive, efficaci ed efficienti.

Certamente difronte all’eccesso di controlli, procedure contabili estenuanti, previsione di pareri inutili e continue interferenze parapolitiche nelle scelte di chi dirige è normale che si pensi a privatizzare il più possibile, ma sarebbe ancora meglio riorganizzare il settore pubblico in modo che il lavorare dei funzionari e dei dirigenti pubblici sia (come già avviene in alcuni Paesi) ancor più efficiente e tempestivo del settore privato o per lo meno che si avvicini molto all’agire delle migliori imprese. Anche altri settori pubblici meriterebbero “eccezioni” verso la semplificazione più radicale, ma il settore culturale sarebbe certamente un buon ambito nel quale iniziare una prima sperimentazione.

UNA NUOVA ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO

Ovviamente una organizzazione tesa all’efficienza necessita di carichi di lavoro non disumani e misurati frequentemente, necessita di uscire dalla fiera degli interim, ripristinando la funzione di vicarietà, indispensabile per una amministrazione efficiente. Non a caso quest’ultima esiste nelle gerarchie ecclesiastiche ed è saldamente rimasta nelle dirigenze pubbliche non privatizzate dalle tristi norme degli anni ´80, per i Prefetti, i Questori, gli Ambasciatori. Una lista nella quale sarebbero stati bene, ad esempio anche i Soprintendenti, anche perché il ministero della cultura ha una rete periferica ancora più articolata di quella del Ministero dell’Interno.

È poi importante nelle professioni culturali riconoscere il giusto equilibrio tra durata e alternanza delle posizioni (sono sbagliati gli incarichi che durano troppo poco e sono sbagliati quelli che durano per sempre o quasi, difatti lo standard in uso in molti paesi, quello del quattro più quattro, ora in uso per i musei autonomi, è una giusta misura: con meno non sai nulla del contesto in cui operi, con troppa permanenza si perde lo stimolo al nuovo che in alcune istituzioni culturali è linfa vitale).

UNA NUOVA LEADERSHIP

Una governance partecipata richiede poi leader veri, non caporali o baroni intronati, purtroppo invece sopravvive in troppi mestieri di amministrazione culturale, a dispetto di una società completamente cambiata, un uso eccessivo del principio di gerarchia, con le modalità mutuate nel primo dopoguerra dai sistemi militari. Dirigenti inarrivabili, che comunicano con ampollose circolari e profluvio di decreti sono ormai esseri fuori dal tempo, a maggior ragione nel dinamismo necessario al fare cultura. Oggi un vero leader non è più quello che sta sopra, ma quello che parla dopo. Un grande generale diceva spesso: non applicate i sistemi militari fuori dalle caserme perché potreste ricordare alla gente che militare vuol dire anche contrario di civile. Bisognerebbe invece capire che nell’ambito culturale si è leader per essere garanti del pluralismo delle idee consapevoli, che esse sono la vera ricchezza anche e soprattutto quando sono disallineate, insomma 120 anni di storia del management pubblico sarebbero finalmente da buttare. Sapersi affrancare da quel bagaglio retorico non è facile e spetterebbe alla generazione più giovane farlo, anche se a volte, negli ultimi difficili e controversi anni, troppi giovani carrieristi scimmiottano vecchi cerimoniosi stilemi per nascondere la loro inconsistenza.

Per favorire una dirigenza efficace nelle istituzioni culturali occorre dare rilievo alla reale esperienza gestionale maturata e non troppo peso alla specializzazione o alla laurea conseguita in gioventù. Sarà indispensabile riscrivere il curriculum universitario e finanche dei licei, affinché chi poi si occuperà della cura patrimonio culturale abbia competenze veramente interdisciplinari. Servono persone a loro agio nelle discipline più disparate e che padroneggino comunicazione, nuovi linguaggi, ma anche le conoscenze giuridiche e di buona amministrazione del denaro. A volte nelle dirigenze distanziarsi dall’iper-specializzazione è molto importante, quello che serve è l’occhio di mosca, come diceva un grande scrittore, cioè la capacità di interpretare i mille nuovi aspetti della società e di gestire i momenti difficili con competenze intersettoriali.

Serve poi un sistema di impiego che paghi meglio lo specialista e non lo assurga al ruolo di dirigente solo per potergli attribuire uno stipendio dignitoso, lasciando viceversa le dirigenze alle persone che sanno fare il difficile mestiere di dirigere. È’ importante anche uscire da ogni autoreferenzialità, dal pensare sempre “mio” (il mio scavo, il mio vincolo, il mio teatro, il mio museo), dal preoccuparsi troppo dei giudizi dei colleghi e conseguentemente troppo poco degli artisti, dei visitatori o degli spettatori. Parallelamente il settore va liberato dalla spada di Damocle tipica del sistema normativo italiano, la criminalizzazione dell’errore, vanno riscritte quelle norme sulla sicurezza che sono impossibili da attuale, ma comunque corredate per ipocrisia normativa da sanzioni penali, andrebbero riscritte anche quelle norme e quelle prassi sulle relazioni sindacali che non favoriscono un rapporto reale di confronto, ma solo estenuanti procedure e commistione di responsabilità.

SELEZIONARE LE COMPETENZE

Altra malattia cronica è quella della scarsa trasparenza dei processi di selezione delle competenze. Non è possibile che a discutere le direzioni dei teatri siano solo le segreterie dei partiti o che per certe nomine si arrivi vicini agli amici e ai “cuggini”. Un buon esempio viene di nuovo dalla riforma dei musei che prevede la buona pratica di selezionare i direttori dei grandi musei attraverso una giuria internazionale. Parrebbe giusto estendere quella buona pratica anche alle nomine dei direttori dei grandi teatri, degli enti lirici e dei direttori delle altre grandi istituzioni, fondazioni, istituti che ricevono contributi pubblici. La settimana scorsa l’assessore alla cultura della Provincia di Bolzano ha avuto il coraggio di selezionare una persona per il consiglio amministrazione del Teatro Stabile di Bolzano, il secondo più antico teatro stabile d’Italia, attraverso una call a tutti gli abbonati affinché presentassero un curriculum adatto al ruolo ed ha poi scelto con il supporto di una commissione. Mi pare un segnale del fatto che alcune buone pratiche, ispirate proprio dalle riforme statali, possano entrare anche nelle prassi degli enti locali.

UNA OCCUPAZIONE GIOVANILE QUALIFICATA, STABILE E BEN RETRIBUITA

L’ultima malattia di cui scrivo, ma non la meno invalidante, è l’attuale vicinanza del settore della cultura con abitudini di sfruttamento del lavoro giovanile.

L’impegno pubblico per la cultura deve essere sempre meglio rivolto a favorire una partecipazione inclusiva dei più giovani e a favorire la genesi di posti di lavoro per le nuove generazioni che non hanno ceduto alle lusinghe di un lavoro più pratico, ma hanno ostinatamente voluto studiare la storia dell’arte, l’archeologia e le altre materie umanistiche. Per i politici e i dirigenti attivi nel settore cultura l’occupazione giovanile qualificata, stabile e ben retribuita dovrebbe essere un primario obiettivo e posso testimoniare che quando ci si riesce diviene la fonte della migliore soddisfazione professionale.

Una nuova legge organica che un buon Parlamento dovrebbe finalmente prendere in considerazione dovrebbe ottenere anche il risultato che i lavoratori del comparto culturale possano essere meglio retribuiti e più stabilmente impiegati. La vicenda del contratto collettivo di Federculture ha evidenziato subito molte resistenze, ma un contratto che riconosca un miglior trattamento economico e giuridico ai lavoratori del settore culturale dovrebbe trovare eco in un codice etico pressoché generalmente obbligatorio per qualsiasi relazione tra privati e finanziamenti pubblici, per le concessioni, i partenariati eccetera.

Una buona governance della cultura si ottiene con un’alleanza tra Stato ed Enti territoriali, tra centro e periferia e privati. È una strada indispensabile per realizzare le enormi potenzialità della cultura per lo sviluppo sociale ed economico della Nazione [2].

NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

[1] Nei primi giorni di marzo l’Università Romatre ha organizzato una lezione a più voci sul tema della governance culturale, al quale ho dedicato molto studio nella professione e molti scritti. Una sintesi di quell’intervento è apparsa sulle pagine del quotidiano Sole24ore il 30 marzo. Qui, dove si promuove una lettura lenta, posso scrivere di alcuni passaggi che inevitabilmente ho dovuto riassumere per il quotidiano ed in primis testimoniare che l’Italia ha già fatto progressi negli anni appena passati.

[2] Per altri approfondimenti si rimanda a: https://independent.academia.edu/AntonioLampis

ABSTRACT

The article discusses the challenges faced by Italy in the cultural sector and highlights the need for a sustainable governance model. The European Commission’s 2017 decision emphasized the undervaluation of cultural heritage in Europe and called for a participatory and cross-sectoral governance approach. The author suggests that Italy needs to move away from the belief that the management of cultural assets is solely the responsibility of the Ministry and should recognize the importance of regional and local government entities. Institutional reforms, such as the creation of a strong network for cultural institutions and a code of conduct for public-private partnerships, are necessary to improve efficiency and transparency. Additionally, a focus on job creation for young people in the cultural sector, recognition of excellence in leadership, and fair compensation for cultural professionals are important factors in achieving a good governance model.

 

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Antonio Lampis

Antonio Lampis

Antonio Lampis, è Direttore del Dipartimento della Provincia autonoma di Bolzano denominato Cultura italiana, Ambiente ed Energia e Vicepresidente della Libera Università di Bolzano. È dipendente di ruolo della pubblica amministrazione dal 1983, Direttore della Ripartizione cultura della Provincia autonoma di Bolzano dal 1997, incarico che ricopre nuovamente dal 1° settembre 2020. Tra il 2017 e il 2020 è stato Direttore generale dei musei per il Ministero della cultura. Dal 26 novembre 2018 al 12 giugno 2019 è stato anche direttore ad interim della Reggia di Caserta. Per molti anni docente a contratto nella Libera Università di Bolzano, Visiting Professor in diverse università (Università Cattolica di Milano, IUAV etc.) e master (TSM, DAMS, Sapienza, Roma tre etc.). Nel 2019 è inserito tra le “100 eccellenze italiane” nel premio con la giuria presieduta dal Vicepresidente Vicario della Corte costituzionale, premio sotto il patrocinio di Presidenza del Consiglio dei ministri, moltissimi ministeri e associazioni d’impresa. Autore di numerose pubblicazioni sui temi dell’autonomia regionale, del marketing, della governance pubblica e delle politiche culturali. È stato membro del board della Biennale europea Manifesta7, Vicepresidente della Fondazione Teatro civico e auditorium di Bolzano dal 2003 fino ad agosto 2008 e membro del Cda fino al 2012; Vicepresidente della Fondazione MUSEION, Museo d'arte moderna e contemporanea di Bolzano per molti anni. Le sue pubblicazioni e il cv completo sono consultabili sul sito web academia.edu.

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