
“MEDIOCRITIES EVERYWHERE, I ABSOLVE YOU”
Chi ha visto il film di Milos Forman Amadeus non potrà non ricordare l’ultima scena, dove un decrepito Salieri, alla fine di una confessione fiume a un giovane prete sempre più sbigottito, conclude il racconto sul suo rapporto conflittuale con Mozart chiedendosi come Dio abbia mai potuto condannarlo a vivere così a lungo da assistere alla progressiva, inarrestabile irrilevanza della sua musica, fino al completo oblio.
Spinto da un inserviente su una carrozzella, come in processione, Salieri assolve benevolmente i suoi compagni di manicomio: uomini incatenati, chiusi in gabbia, sorvegliati da guardiani in uniforme che si battono ritmicamente la frusta sulla gamba.
È vero che Salieri si autoproclama mediocre tra i mediocri, anzi il loro santo patrono, eppure il suo gesto di benedizione è animato da un sentimento non tanto di solidarietà, quanto di superiorità.
È stato un istante per me, una piccola folgorazione personale, vedere in questa processione una metafora dell’avanzata trionfale del “museo samaritano” tra gli ultimi della terra. Non è forse un caso che Salieri si rivolga alle mediocrità anziché ai mediocri. Costringere le persone entro un unico contenitore, con un’etichetta che ne attesti l’omogeneità, è molto più conveniente che non riconoscere l’unicità e la complessità delle loro singole storie e aspirazioni.
L’associazione della sequenza finale di Amadeus al paternalismo di tanti musei è senza dubbio un’iperbole, ma forse è proprio di questo che hanno bisogno: una specie di sveglia esistenziale, un richiamo ad aprire gli occhi sul destino che li attende se non sapranno diventare istituzioni “prossime” alla vita delle persone.
Non solo quelle strutturalmente poste ai margini, cui pensiamo quasi in automatico quando si parla di “inclusione”: gli immigrati e i rifugiati, i portatori di disabilità, le persone con diverse patologie, i giovani a rischio di devianza, gli individui discriminati in base all’orientamento sessuale… Già questo repertorio di “diversi” – i famosi pubblici con bisogni speciali – dovrebbe metterci in guardia rispetto alle semplificazioni e talvolta allo stigma che rischia di alimentare, anziché contrastare.
Accanto a queste persone, proviamo a immaginare tutti i cittadini che le istituzioni culturali continuano a tenere lontani dalle loro porte: perché a ben vedere, i dati sulla frequentazione dei musei – soprattutto quelli d’arte – nei cosiddetti “paesi sviluppati” [1] ci restituiscono un’immagine poco lusinghiera della loro capacità di intercettare e costruire relazioni durature con pubblici diversi da quelli abituali, facilmente riconoscibili per grado di istruzione, censo, fascia di età, colore della pelle.
Nonostante decenni di rivoluzioni nel pensiero pedagogico e museologico, di dibattito sulla “democrazia culturale” come alternativa alla “democratizzazione della cultura”, di enfasi crescente sulle pratiche partecipative, le fondamenta su cui poggia l’istituzione museale restano ancora saldamente ancorate al mito dell’origine: quello dell’edificazione del pubblico. “Questo fallimento è dovuto in gran parte all’effetto disabilitante di trattare le persone come beneficiari passivi, anziché agenti attivi. […] Una storia che continua ancora oggi a permeare la relazione del museo con tante persone, trattate come se fossero portatrici di una lacuna da colmare” (Lynch 2021). Di mediocrità da assolvere.
INCLUSIONE O DIRITTI?
Negli ultimi vent’anni, il lessico dell’inclusione ha dominato il dibattito sul ruolo sociale dei musei, consolidando in tal modo una mentalità assistenzialistica che, pur con le migliori intenzioni, finisce spesso per trasformare la dimensione del servizio in un atto di beneficenza.
Non a caso la nozione stessa di inclusione – così come quella di integrazione – è oggetto di critiche sempre più frequenti: chi include chi, e in base a quale autorità? Nella pretesa di includere/integrare, e nella postura che ne consegue, le asimmetrie di relazione e di potere sono evidenti.
Ecco perché sono convinta che il cambio di passo fondamentale per i musei (per qualsiasi istituzione culturale) sia rimettere al centro il concetto di diritto, ovvero abbracciare un approccio che trova il suo fondamento nella piena promozione dei diritti delle persone (human rights-based approach).
L’inclusione passa molto spesso per un atto di magnanimità, di benevolenza, una mano che il museo tende ai “bisognosi”, quando in realtà la partecipazione culturale è un diritto fondamentale sancito dall’art. 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948). Un diritto che non è isolato, ma inestricabilmente legato e interconnesso ad altri, come il diritto all’educazione, alla libertà di opinione e di espressione, all’esercizio della cittadinanza attiva, a uno standard di vita dignitoso, alla libertà da ogni forma di discriminazione.
Parafrasando John Donne, nessun diritto è un’isola, completo in se stesso. Tutto si tiene.
Su questo tema della indivisibilità, interrelazione e interdipendenza dei diritti umani, è utile consultare la pubblicazione Museums and human rights: human rights as a basis for public service, che traccia una linea di demarcazione molto netta fra le tradizionali pratiche “inclusive” e un approccio fondato sulla promozione dei diritti, i cui obiettivi fondamentali sono “abilitare le persone a rivendicare ed esercitare i propri diritti” e “rafforzare la capacità degli attori [inclusi i musei] che hanno un preciso obbligo o responsabilità di rispettare, proteggere e promuovere l’effettivo esercizio dei diritti, soprattutto da parte degli individui più emarginati e sotto-rappresentati” (McGhie 2020).
Su una analoga linea di pensiero, Bernadette Lynch sostiene che l’attivismo di cui molto si parla in questi ultimi anni anche in ambito museale non consiste tanto in una presa di parola a nome della collettività e dei singoli sui grandi temi di oggi e di domani, quanto nel sostenere le persone nello sviluppo di una propria cittadinanza attiva, costruendo insieme a loro gli strumenti e le capacità necessarie a realizzare un vero cambiamento sociale (Lynch 2021).
I musei sono luoghi dove si forma la nostra idea del mondo che ci circonda; nel migliore dei mondi possibili, luoghi scomodi, che non ci fanno “sedere” sulle nostre certezze, ma provocano sempre nuove domande e prospettive, senza dare risposte preconfezionate. Il contributo più vitale che possono offrire è quello di creare “citizens fitted for freedom”, cittadini equipaggiati per la libertà (Nussbaum cit. in Lynch 2021).
Paradossalmente, un’aspirazione così grande non può che trovare spazio in un museo che si fa piccolo:
Dove inizia, in fin dei conti, l’esercizio dei diritti umani universali?
In piccoli luoghi, vicino a casa – così vicini e così piccoli da risultare invisibili su qualsiasi mappa. Eppure, sono il mondo attraversato dalle singole persone: il quartiere in cui vivono, la scuola o l’università che frequentano, il loro luogo di lavoro.
Sono questi i luoghi in cui ogni uomo, donna, bambino cercano pari giustizia, pari opportunità, pari dignità, liberi da ogni discriminazione. Se i diritti non hanno alcun significato in luoghi come questi, non ne possono avere in nessun altro (Roosevelt 1958, cit. in McGhie 2020).
I musei possono, devono essere uno di quei “piccoli luoghi, vicino a casa” di cui parla Eleanor Roosevelt.
ABBIAMO BISOGNO DI UN MUSEO SAMARITANO?
Una delle spie di allarme più evidenti rispetto alle intenzioni che muovono molti musei verso l’“inclusione” di nuovi pubblici è l’enfasi posta su bisogni, esigenze e lacune, piuttosto che su abilità, risorse e saperi; sulla vulnerabilità e la sofferenza, anziché sulla dignità, il coraggio, le aspirazioni, persino la gioia.
Nell’introduzione di Museums and social change, Bernadette Lynch ci mette in guardia dalla confusione tra helpful e useful museum (Lynch 2021). La trasposizione in italiano è complicata dal fatto che entrambi i termini vengono di norma tradotti con “utile”, mentre in inglese assumono una sfumatura diversa: helpful rimanda al concetto di “aiuto”, useful a quello di “risorsa”.
Nel caso del museo samaritano, il rischio di un atteggiamento paternalistico è sempre dietro l’angolo: quanto reale è la presa di parola, e quanto invece ancora radicata l’ansia di controllo che come istituzioni vogliamo mantenere nell’accogliere nuove voci e narrazioni al nostro interno?
“È la prima volta che mi sento trattato come una persona”: questa affermazione, che tanto spesso crea un senso di autocompiacimento nel museo samaritano, convalidando le sue credenziali di istituzione attenta ai bisogni della società, dovrebbe invece indignarci, spingerci a raddoppiare, quintuplicare, decuplicare, centuplicare gli sforzi affinché ogni individuo tenuto ai margini non si senta “accolto”, “incluso”, ma pienamente riconosciuto nella sua dignità e nei suoi diritti.
Dici di volermi aiutare
ma ti prendi il mio orgoglio
la mia autostima
la mia morale e i miei principi
il mio amore
la mia tristezza.
Questa toccante testimonianza di Richardt Aamand (cit. in Lynch 2021) ci riporta alla realtà di persone che non chiedono di essere “integrate”, ma riconosciute come presenza e voce autorevole e critica, portatrice di valore, di saperi e di abilità, in assenza della quale il racconto del museo è condannato a rimanere autoreferenziale.
Il concetto di “museo predatore” è storicamente collegato alle pratiche di acquisizione delle collezioni in un contesto coloniale, ma più di recente si è fatta strada anche la nozione di “partecipazione predatoria” (Singer 2021). Per alcuni musei, i progetti “di inclusione” sono un’occasione per ottenere un importante ritorno di immagine, giustificare la propria esistenza agli occhi dei contribuenti, accedere a bandi e finanziamenti ad hoc. “Per paura di diventare irrilevanti”, i musei cercano di consolidare la propria autorevolezza (di fatto la propria autorità) “invitando i visitatori a partecipare a pratiche interpretative di facciata, invece di cambiare davvero il modo in cui operano” (Singer 2021).
Tutte le riflessioni fin qui svolte sembrano restituire una visione eccessivamente cinica e disincantata di ciò che muove i musei verso l’“inclusione”, eppure in molti casi si tratta di un semplice dato di realtà. Ce lo raccontano l’episodicità delle pratiche partecipative (short-termism), la solitudine di chi se ne fa carico, le dinamiche interne che non ne vengono minimamente intaccate (soprattutto nel caso delle grandi istituzioni, ma non solo), la marginalità rispetto al “core business” del museo e alle metriche che ne dimostrano il valore (tokenism).
La giustizia sociale di cui tanto si vagheggia oggi nel mondo dei musei incomincia da un silenzioso, paziente, progressivo ma sostanziale cambiamento interno. In fin dei conti, chiede provocatoriamente Elizabeth Crooke, “siamo più preoccupati della rinascita della comunità o della sopravvivenza del museo?” (Crooke 2007, cit. in Murawski 2021).
“RE-HUMANIZE THIS PLACE”
“Decolonize this place” è un movimento nato negli Stati Uniti nel 2016 per contestare la rappresentazione distorta dell’alterità nelle istituzioni culturali, e più in particolare nei musei “enciclopedici” ed etnografici (in tempi recenti, spesso ribattezzati “delle culture” o “delle civiltà”).
E se fosse giunto il tempo non solo di de-colonizzare questi musei, ma di ri-umanizzare ogni museo, anche quello che si professa “neutrale” e “universale”?
Accanto alle pubblicazioni già ampiamente citate nei paragrafi precedenti, i libri di Mike Murawski e Laura Raicovich – rispettivamente, Museums as agents of change e Culture Strike. Art and museums in an age of protest – sono stati per me “le buone compagnie” del 2021, una autentica miniera di spunti per rimettere costantemente in discussione le nostre pratiche su questo fronte.
Per quanto complesse siano le questioni che vi sono affrontate – il mito della neutralità, le relazioni con la “comunità”, gli equilibri di potere, gli stili di governance e di leadership – vi è infatti un tema che corre sottotraccia in entrambi i volumi: rimettere l’umanità al centro. Non solo ristabilendo un diverso equilibrio tra collezioni e persone, ma fondando i rapporti con la collettività e le dinamiche istituzionali stesse sulla pratica del prendersi cura.
Laura Raicovich è adamantina nella sua convinzione che nessun reale cambiamento sia possibile se il museo non viene ripensato alla radice, e rimesse in discussione le sue tradizionali priorità: custodire le collezioni e salvaguardare il rigore accademico, certo, ma anche – sempre più di frequente – incrementare i visitatori e generare reddito.
Reimmaginare le collezioni, reintrodurre la fluidità delle storie, ridare dignità al non detto, spogliarsi dei pregiudizi, sfidare le categorizzazioni, diventare incubatori di possibilità, rallentare radicalmente: queste alcune tra le suggestioni offerte da Raicovich.
L’idea alla base del museo universale, che tutti apparteniamo alla grande famiglia umana a dispetto delle nostre differenze, e che “possiamo essere ‘semplicemente’ umani in questo spazio, è un’idea profondamente allettante”, che viene però smentita nei fatti: “il museo è costruito su un inganno, su una universalità che in realtà corrisponde a un’identità ben precisa: bianca, maschile, eterosessuale, ‘abile’, colta, benestante. […] All’improvviso ti rendi conto che questa definizione di ‘universale’ non comprende te” (Raicovich 2021).
Ed è qui che entra in campo il museo samaritano (o paternalista), fondato a sua volta su una sorta di inganno: quello di correre in soccorso degli esclusi, quando in realtà queste persone sono vittime non tanto delle proprie lacune, quanto delle barriere che impediscono loro di esercitare pienamente i propri diritti, incluso quello alla partecipazione culturale.
Il museo cui aspira Raicovich è per contro una “impresa collettiva”, dove ogni individuo è coinvolto come persona che arricchisce non solo le collezioni, ma l’istituzione intera e chi vi lavora con i propri saperi, le proprie abilità, i propri vissuti e il proprio sguardo, contribuendo allo sviluppo di una interpretazione polifonica.
Sulla stessa lunghezza d’onda, per Mike Murawski la questione non è tanto in che modo i musei possano servire la collettività, ma quali siano i talenti, i saperi e gli interessi della collettività che possono portare nuova linfa alle pratiche del museo. “Al cuore del nostro lavoro con specifiche comunità e con i pubblici locali vi è l’impegno a individuare e valorizzare le risorse, le capacità creative, le storie, i linguaggi, le culture, le voci e le esperienze di cui le nostre comunità sono portatrici. Nel campo degli studi sullo sviluppo di comunità, questo si chiama asset-based approach o capacity-focused development, in chiaro contrasto con la mentalità sottesa a un approccio fondato sui bisogni”.
E se fosse l’amore, prima di ogni altra cosa, il valore in grado di guidare il cambiamento radicale di cui abbiamo bisogno nei musei oggi? [2] Questa è la domanda cruciale delle ultime pagine del libro di Murawski. Che fa proprio il pensiero di Paulo Freire: “Dobbiamo avere il coraggio di parlare di amore senza temere di essere giudicati ridicoli, stucchevoli, poco scientifici (se non anti-scientifici). Dobbiamo avere il coraggio di affermare scientificamente che noi studiamo, apprendiamo, insegniamo, conosciamo con tutto il nostro corpo, con i sentimenti, le emozioni, i desideri, le paure, i dubbi e la passione, oltre che con il pensiero critico” (Freire 1998).
Amore, empatia, fiducia, generosità, apertura, reciprocità, interdipendenza, solidarietà, capacità di intercettare le aspirazioni più profonde della collettività e sostenerne i diritti (invece di riconoscerne l’importanza solo ora che non possiamo più fare affidamento sui grandi flussi turistici): è sempre più forte la mia convinzione che in un momento di transizione epocale come quello che stiamo vivendo, siano questi i valori che i musei devono avere il coraggio di abbracciare, per non restare trincerati nelle loro zone di comfort e cadere nella trappola di quella “nuova normalità” che tutti vagheggiamo, ma che temo finirà per assomigliare molto (troppo) al punto in cui eravamo prima della pandemia.
Sono pienamente consapevole delle sfide che tutte queste riflessioni pongono a gran parte dei musei italiani, persino a quelli che negli ultimi anni si sono messi coraggiosamente in gioco sperimentando pratiche autenticamente partecipative, eppure ancora vissute (ignorate o nel migliore dei casi tollerate) come un “corpo estraneo” da chi si occupa di ricerca, conservazione, curatela, esposizione. La provocazione del museo samaritano vuole essere proprio questo: un invito a porsi domande forse scomode (non solo cosa facciamo, ma come e soprattutto perché), eppure vitali per intraprendere quel lungo viaggio del cambiamento istituzionale che solo può dischiudere la possibilità di sguardi, vocazioni, pratiche e relazioni diverse.
Dopotutto, come affermava l’architetto e designer Richard Buckminster Fuller (cit. in Murawski 2021), “Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta”.
NOTE
[1] A puro titolo esemplificativo, secondo i dati ISTAT nel 2018 solo il 34% degli italiani avrebbe visitato un museo almeno una volta. [2] Per un approfondimento sul valore dell’amore nelle pratiche museali, rimando anche a un bellissimo incontro organizzato da Maria Vlachou (Acesso Cultura, Portogallo) in dialogo con Mike Murawski e Emily Pringle nell’ambito del ciclo di webinar “The activist museum: going deeper”.BIBLIOGRAFIA
Crooke E. (2007), Museums and Community: Ideas, Issues and Challenges, Routledge.
Freire P. (1998), Teachers as Cultural Workers: Letters to Those Who Dare Teach, Westview Press.
Murawski M. (2021), Museums as Agents of Change. A Guide to Becoming a Changemaker, Rowman & Littlefield.
Lynch B. (2021), “Neither helpful nor unhelpful – a clear way forward for the useful museum”, in Chynoweth A., Lynch B., Petersen K., Smed S., Museums and social change. Challenging the unhelpful museum, Routledge.
McGhie H.A. (2020), Museums and Human Rights: human rights as a basis for public service, Curating Tomorrow.
Raicovich L. (2021), Culture Strike. Art and museums in an age of protest, Verso; in corso di pubblicazione in italiano presso Nomos edizioni.
Singer I. (2021), Museums as predators, in “American Perceptionalism”.
Simona Bodo è ricercatrice e consulente in tematiche legate al ruolo sociale dei musei, all’educazione al patrimonio in chiave interculturale e, più in generale, alla promozione della partecipazione culturale di tutti i cittadini. È co-fondatrice di Patrimonio di Storie, e per Fondazione Ismu cura il programma Patrimonio e Intercultura e l’omonimo sito.
ABSTRACT
In the past twenty years, the jargon of “inclusion” has permeated the debate on the social role of museums, thereby reinforcing a welfare mentality which, in spite of good intentions, ends up transforming the dimension of public service into an act of charity. One of the red flags for the rationale underlying the Samaritan Museum’s practices is the emphasis placed on the “special needs” to be addressed or the “gaps” to be filled, rather than on our communities’ resources, talents, creative skills and knowledge bases to be tapped into; the focus on vulnerability and suffering, rather than on dignity, courage, aspirations, even joy. This contribution challenges the notion of the Samaritan Museum, arguing that the radical change we badly need in our cultural institutions today can only be achieved by embracing a human rights-based approach, as well as by recognizing love, trust, generosity, openness, interdependence and solidarity as organizational values.