
La pandemia si è abbattuta sulle organizzazioni del settore culturale facendo danni anche maggiori rispetto ad altri segmenti dell’attività economica. Questo effetto è evidente per chi opera nel sistema bancario a servizio del Terzo Settore, come Intesa Sanpaolo: gli effetti leggibili sono stati chiusure nel segmento non-profit della cultura e, piuttosto presto, il declino del suo merito di credito – il rating. L’impatto sui bilanci 2020 del Covid-19 e delle relative restrizioni non lascia molti dubbi, almeno nell’aggregato. Era facile, due anni fa, prevedere che ci sarebbero state difficoltà non lievi di finanziamento del settore.
CHE FARE?
Sapevamo che la pandemia avrebbe operato sul settore una scrematura, a favore delle organizzazioni più resilienti, quelle che hanno le “carte” – le capacità culturali e manageriali, gli asset materiali e non, i legami con i loro stakeholder – per sopportare un periodo di difficoltà e poi riprendere l’attività con le proprie gambe. La domanda che ci siamo posti è stata: abbiamo un buon metodo di valutazione di queste “carte”? Che sia capace di catturare la specificità del “settore culturale” – che è comunque un aggregato eterogeneo e altamente dotato di asset intangibili – in modo da andare a vedere ciò che rileva per gli operatori del settore e che la valutazione tradizionale, da sola, non arriva a indagare, uscendo inoltre dall’illusione che si possa misurare tutto, in tutto il mondo, con lo stesso metro? Impossibile poi non tenere in considerazione un elemento trans-settoriale: la rete, scrive Erin Meyer, ha aumentato le differenze, anziché appiattirle, da cui la necessità di indagare le specificità.
Abbiamo quindi fatto uno sforzo evolutivo che crediamo interessante sia per gli aspetti metodologici che per qualche risultato. Siamo comunque partiti da un distintivo atteggiamento di Intesa Sanpaolo, favorevole ad andare a cercare i fattori di sostenibilità futura in ogni organizzazione cliente – profit, non-profit o pubblica – che guardata allo “specchio retrovisore” del bilancio appaia peggiore di come sembra logico sia, se vista in prospettiva. E lo abbiamo applicato al comparto non-profit della cultura.
METODOLOGIA
Convinti che un’attività desk (da scrivania isolata) non sarebbe stata molto utile in condizioni che cambiavano rapidamente, abbiamo ingaggiato gli operatori a diretto contatto con il problema: i dirigenti delle organizzazioni culturali – badando a rappresentare i vari comparti – i gestori che li seguivano e i colleghi dei Crediti che dovevano valutarli. Vari sono stati i round di interviste e “piloti”. Presso i manager, le interviste erano volte a cercare ciò che essi ritenevano importante per la loro sostenibilità, ma che noi non guardavamo, perché spesso intangibile e comunque sconosciuto alle nostre categorie interpretative. Ai nostri gestori territoriali, abbiamo chiesto come organizzare domande e risposte (p.es.: risposte multiple o aperte, quante domande, etc.). Con i colleghi dei Crediti, abbiamo cercato di capire quali risposte fossero credibili, quindi utilizzabili, e a che condizioni. A tutti questi attori va il merito di aver offerto preziosi contributi di sostanza sui quali, procedendo con metodo deduttivo, abbiamo fatto sintesi.
Siamo stati sorpresi della quantità di indicazioni. Abbiamo quindi categorizzato la complessità, identificando sei driver, sei fattori grandi della sostenibilità: (1) audience development e qualità, ovvero come gestire e stimolare la domanda; (2) innovazione, letta soprattutto come digitalizzazione (e su questo si è aperto un dibattito su cui torneremo in altra sede); (3) qualità del management, non in generale ma rispetto a una serie di comportamenti specifici di eccellenza; (4) controllo dei costi, soprattutto di quelli più spesso non gestiti (spazi inutilizzati, magazzino, …); (5) capacità di fare rete (networking), e cioè ingaggio di c.d. complementor, per condividere qualità del prodotto e costi; (6) legami con gli stakeholder, allo scopo di creare, mantenere e sfruttare una rete di sostegno (nella continuità) e soccorso (nelle emergenze) da parte del territorio e degli altri portatori di interessi.
Ciascun driver comprende un certo numero di domande. Nella versione operativa dello strumento, che ha sostenuto per ora due esperimenti pilota interni, sta per essere applicato a organizzazioni assegnatarie di bandi presso due Fondazioni e per essere reso regolare su un segmento dell’attività bancaria, vi sono circa 40 domande a risposta multipla per le organizzazioni più grandi e circa la metà per quelle più piccole, con un sistema di scoring (attribuzione di punteggi) diversificato e calibrato differentemente rispetto ai diversi sotto-settori della cultura, ai diversi driver e alle specifiche domande. Il questionario è integrato da una maschera di inserimento di dati di un business plan minimale; quest’ultimo è facoltativo, ma se non compilato o solo parzialmente ne deriva una penalizzazione e comunque le regole di Intesa Sanpaolo prevedono che sia necessario per richieste di credito a medio-lungo termine.
Il grande problema di qualsiasi strumento di questo genere, specie se auto-somministrato, è la verifica della veridicità delle risposte. Nel nostro caso questo rischio è calmierato da due fattori; il primo è un controllo incrociato, quando possibile, fra risposte qualitative e numeri del business plan. Per esempio, se un rispondente afferma, sub driver 3, di avere un ottimo controllo di gestione, ma non ha un business plan, “degradiamo” la risposta. Il secondo fattore di mitigazione si ottiene attraverso la somministrazione del questionario da parte del gestore, che conosce il cliente e lo guida nelle risposte in cui è incerto (p.es. nella interpretazione delle domande: si tratta di un fattore importante della qualità dei dati). Quando opportuno, il gestore chiederà documentazione aggiuntiva a supporto.
PRIMI RISULTATI E PROSPETTIVE
Quanto percorso finora suggerisce tre conclusioni provvisorie.
La prima è che i clienti, i loro gestori, e i terzi che sono stati a contatto con l’esperienza hanno generalmente apprezzato lo strumento, per la capacità di produrre conoscenza, senza imporre costi eccessivi in termini di impegno. Inoltre, mentre il rating “tradizionale” ha comunque una forte capacità di discriminazione dei clienti, l’aggiunta della nuova componente corregge alcuni – attorno al 15% – casi di valutazione bassa (migliorandola) o alta (proponendo caveat). In ultimo i vari driver hanno diversa “capacità discriminante”: valori numerici più distribuiti che ci aiutano a distinguere le organizzazioni migliori dalle peggiori. In particolare, i driver 4 e 5, controllo dei costi e capacità di networking, sembrano più capaci di discriminare rispetto p.es. alla gestione della domanda (driver 1, audience development) che pare più omogenea.
Quanto al futuro: per ora lo strumento serve a un miglioramento “culturale” della relazione fra gestore e cliente. Vi sono vari scogli da superare prima che questa metodologia, che allarga la componente qualitativa dell’analisi, possa entrare stabilmente nelle valutazioni standard della banca, in primis una fase di raccolta dati che consenta di verificare, sostenuta da congrua serie storica, le relazioni statistiche fra i punteggi raccolti e l’effettiva performance delle organizzazioni affidate; ma anche questioni ulteriori di natura tecnica che non approfondiamo in questa sede.
C’è anche la possibilità che il “Giudizio Strutturato Cultura” serva al di fuori della cerchia bancaria, per altri operatori che desiderano valutare la sostenibilità delle organizzazioni culturali (con alcuni di essi sono in corso contatti); ovvero per le organizzazioni culturali stesse, come checklist della propria salute organizzativa e propensione al futuro. Il nostro attuale atteggiamento è quindi quello di detentori di una open innovation che ammette condivisioni con chiunque desideri approfondire modelli di valutazione e politiche finanziarie (o erogative) che indirizzino e incoraggino a migliorare la sostenibilità.
ABSTRACT
We report on a tool that complements existing evaluations of cultural organisations’ creditworthiness. By interviewing experts who run such entities, we elicited indications of a number of factors that enhance the organisations’ long term economic sustainability but are typically ignored by existing rating systems. We grouped these (mostly intangible assets) into six “drivers”, mapped them into multiple-choice questions and administered two pilot attempts with 60 organisations. The questionnaire was well received and able to reorient about 15% of evaluations.